México Sur Real – Un giorno, a Real… (prima parte)

L’autostrada che percorrevo ogni sera per recarmi agli studi della HXLA 103.5 FM, la radio dove lavoravo da ormai dieci anni, anche quella sera si stava lentamente svuotando da quanti, complice magari un’ora o più di straordinari, stavano rincasando da lavoro isterici ed esausti e fortunatamente per me, provenienti proprio dal centro città, cioè dove mi stavo recando io. Questo mi permetteva di guidare in relativa tranquillità, giacché il traffico che a quell’ora si recava verso downtown era naturalmente di molto inferiore al traffico di quelli che invece la lasciavano, e ovviamente questo comportava per me uno stato d’animo ben differente da quei poveracci che per mille ragioni erano incazzati con il mondo intero. In realtà a me – e questo era uno dei vantaggi di avere un lavoro che mi piaceva, che svolgevo in quasi completa autonomia e al quale mi dedicavo sempre di notte – raramente capitava di essere arrabbiato o nervoso per qualche faccenda inerente alla mia professione; molto più facile lo fossi dopo aver letto un giornale o ascoltato un notiziario televisivo. Avevo comunque eliminato il problema alla radice, evitando accuratamente di apprendere notizie da qualsiasi tipo di media, escluso un settimanale che consideravo abbastanza indipendente, e che leggevo giusto per non sentirmi tagliato completamente fuori da questo mondo. Comunque sia, guidavo tranquillo, illuminato a intermittenza dalle luci arancioni dei lampioni che costeggiavano l’autostrada, mentre con il lettore mp3 della macchina stavo ripassando velocemente la scaletta musicale che avrei proposto per quella puntata alle anime della notte, come mi piaceva chiamare i miei ascoltatori notturni. Guidavo, e mentre ripassavo la scaletta musicale, tra una canzone e l’altra, mi preparavo mentalmente l’argomento che avrei trattato quella notte che come ogni notte era un argomento che mi interessava da vicino, dato che a me piaceva parlare solo delle cose che conoscevo personalmente. Quella notte, infatti, avrei parlato ai miei radioascoltatori del mio ultimo viaggio in Messico, e in particolare del mio soggiorno in un villaggio particolare del Messico settentrionale, una sorta di ghost-town celebre per essere mèta, ma anche “punto di partenza”, per viaggi alquanto singolari. Volevo appunto parlare anche di questi “viaggi”, ma soprattutto volevo raccontare la mia esperienza che nonostante fosse stata pianificata appunto attorno a questi “viaggi”, mi regalò in realtà altri episodi che alla fine capii di dover prendere così come mi erano arrivati, senza provare a spiegarmeli, comparabili però a tutto quel contesto magico e un po’ surreale in cui è avvolto il villaggio in questione. Il villaggio era Real de Catorce… Quando giunsi ai piedi della 999 Tower – il grattacielo sede della HXLA 103.5 FM da cui trasmettevo le canzoni e le parole che accompagnavano nella notte ogni genere di individuo umano, nonché sede di innumerevoli altre attività commerciali e non, tra cui un paio di banche, gli uffici direzionali di almeno tre importanti multinazionali, e un numero imprecisato di studi di notai, avvocati, commercialisti, dentisti, eccetera, eccetera… – mi diressi ai garage sotterranei del grattacielo e dopo aver salutato Ricardo, il guardiano notturno del garage appunto, presi l’ascensore e salii velocemente al trentaseiesimo piano, dove si trovavano gli studi e gli uffici amministrativi della radio. Quindi, dopo essere entrato, e aver salutato con un sorriso Amanda, la segretaria addetta all’accoglienza di turno quella sera con cui, praticamente una vita fa, avevo avuto anche una breve storia, mi diressi senza fretta allo studio 4. “Anche stasera sono qui America” pensai guardando oltre la finestra di quella stanza mentre entravo nello studio, mi chiudevo la porta alle spalle e spargevo i miei fogli sul tavolo. Qui, dopo essermi seduto e avermi posto le cuffie, scrissi la scaletta musicale per quella sera, ascoltando le previsioni del tempo che in quel momento stavamo trasmettendo. Continuai a scrivere per un bel po’, per timore forse di dimenticarmi qualche pezzo, finché non alzai la testa guardando al di là del vetro, e un po’ dubbioso pensai: “Chissà come mai Isidro non è ancora qui”, proprio mentre il buon vecchio Isidro tutto ansimante, apriva la porta della sua porzione di studio, quella in cui c’erano il mixer e tutti gli apparati tecnici che lui riusciva a domare così magistralmente. – Scusa il ritardo Dave – esordì Isidro, sorridendo timidamente e stringendo nella mano un hamburger mezzo mordicchiato, per poi aggiungere frettolosamente – sai com’è, avevo fame e tra una cosa e l’altra… – Ok, ok Isidro, non ti preoccupare, tanto prima c’è la pubblicità, poi il radiogiornale e poi ancora la pubblicità, giusto il tempo per cercarmi tutti questi brani quindi… – gli dissi io al microfono, facendogli vedere il foglio su cui avevo annotato le canzoni che sarebbero passate quella notte. – Cosaaa? Tutti quei pezzi. Mi ci vorranno almeno venti minuti per trovarli tutti, ammesso che ci siano tutti nella banca dati del PC della radio… – Non preoccuparti Isidro – gli feci io divertito – se non li trovi, ti do le chiavi della mia macchina, che tanto ce li ho tutti nel mp3… – e dicendo questo lo salutai ridacchiando e me ne andai a mangiare qualcosa. Quando ritornai allo studio, dopo aver consumato un piccolo spuntino e dopo aver aperto la porta che immetteva alla mia postazione, le luci erano già state abbassate e i led luminosi della strumentazione erano quasi gli unici riferimenti visibili che come ogni notte, erano ammessi in quella stanza, il mio piccolo personale regno di chiacchiere e musica. Chiesi a Isidro, impegnato al di là del vetro ad addentare i resti del suo hamburger, conferma di ciò che mi aspettavo, ossia che la scaletta musicale fosse pronta e lui, finendo il tutto in un sol boccone, mi fece cenno che tutto era pronto, per cui mancava solo che si accendesse la scritta luminosa dell’ON AIR. Allora mi misi le cuffie, chiesi al microfono a Isidro che mi passasse la diretta, e sentii proprio in quel momento le ultime notizie sportive del radiogiornale, dopo di che il giornalista salutò, partì la sigla finale, e dopo una breve pausa pubblicitaria, finalmente Isidro mandò la sigla del mio programma radiofonico, mentre l’ON AIR luminoso, annunciava che ero in diretta. – Buonanotte anime della notte – esordii come ero solito fare, mentre la sigla iniziale stava ancora andando in sottofondo – anche questa notte Dave Hammond è qui con voi dallo studio 4 della HXLA 103.5 FM, per tenervi un po’ di compagnia in questa fresca notte americana, un’altra notte che si aspetta solo di essere vissuta anche da voi, da voi che la fuori state guidando un trailer verso chissà quale mèta, da voi che lavorate alla redazione di un qualche quotidiano, da voi che state preparando il pane che domani mattina tutti gli americani mangeranno, da voi anime della notte, che di notte vivete, lavorate o semplicemente solo esistete, quando invece tutti gli altri sono a dormire, nascosti nella faccia oscura della loro personale luna, quasi inesistenti. Guardai Isidro al di là del vetro, mentre la sigla iniziale stava ancora andando, e allargai appena le braccia, a chiedergli se questo inizio lo aveva convinto, e lui per tutta risposta mi alzò il pollice della mano destra e fece ondeggiare la testa quasi impercettibilmente su e giù, a conferma che gli era piaciuto. Poi con la sigla che lentamente sfumava nel primo brano che avevo programmato per la nottata, ripresi a parlare, introducendo il tema che avrei trattato, che poi in realtà erano più di uno. – Anche questa notte, care anime della notte, con l’aiuto tecnico del nostro Isidro López, che salutiamo al di là del vetro, e dei brani che per tutti noi lui ci farà ascoltare, intraprenderemo un viaggio che ci porterà a discutere di vari argomenti, tutti legati tra di loro in maniera molto stretta, e il tutto con sullo sfondo un piccolo e magico villaggio messicano, Real de Catorce, un villaggio che ho avuto maniera di visitare qualche settimana fa durante un viaggio in Messico. – Un viaggio – continuai quando risuonavano i primi accordi della chitarra di John Frusciante che introducevano il primo brano della nottata – che mi ha portato a percorrere strade e piste sterrate tra i deserti del vecchio Messico, con la vista che spaziava tra infinite distese di cactus, aride montagne battute da un sole feroce, e polverosi villaggi sperduti, alla ricerca di qualcosa che non sapevo bene neanche io cosa fosse, ma che può essere magnificamente sintetizzato da questo “Scar tissue” un brano di qualche anno fa dei Red Hot Chili Peppers, e poiché parliamo di Messico, i Red Hot cadono proprio a pennello, non vi pare? A quel punto Isidro alzò il cursore del canale del mixer dove stava andando la musica dei “Peperoncini Rossi Piccanti” che all’istante prese il posto della mia voce, e grazie alla magia delle sette note trasportò me, e probabilmente tutti i miei radioascoltatori, proprio tra quei deserti da desperados in cui avevo viaggiato qualche settimana addietro, regalandomi suggestioni che ancora non avevo finito di vivere. Quando l’ultima nota della canzone salì al cielo e quasi evaporò nella notte un po’ stellata della grande città, la mia voce riprese a raccontare, raccontare del viaggio e delle motivazioni di quel viaggio, partendo però dal prologo. – Allora che ve ne pare come inizio? – chiesi ai miei radioascoltatori che seguivano la mia trasmissione anche quella notte, per poi continuare: – Be’, spero che questa “Scar tissue” vi abbia regalato le stesse sensazioni che ha regalato a me, iniziando a immergervi nella particolare atmosfera un po’ ovattata in cui voglio che vi immergiate anche voi, per farvi apprezzare fino in fondo tutto ciò che vi racconterò, e tutte le suggestioni che incontreremo lungo questo viaggio. E così iniziai il racconto vero e proprio: – La storia che vi voglio raccontare, care anime della notte, potrebbe iniziare più o meno con un inizio classico, poiché non ha particolari pretese, un inizio forse banale, ma efficace e onesto, come questo: un giorno, a Real de Catorce, piccolo villaggio incastonato tra gli aridi altipiani delimitati ad est dalle montagne della Sierra Madre Occidentale, durante un viaggio nel quale ero alla ricerca di qualcosa che non riuscivo a esprimere a parole, mi capitò di vivere sensazioni e fatti concreti e reali che sfuggono a qualsiasi spiegazione, almeno a quelle che il nostro cervello è abituato a concepire. – Un viaggio – continuai scorrendo con l’indice destro la scaletta delle canzoni programmate per la nottata – capace di regalare motivi d’interesse già all’entrata del villaggio in questione, apprestandosi cioè ad attraversare l’Ogarrio, l’angusto tunnel che collega la realtà di Real, all’irrealtà del nostro mondo, un tunnel scavato nella roccia a picconate e frustate, talmente stretto e vagamente inquietante che di notte, quando i guardiani del tunnel non ci sono, non è difficile che due mezzi provenienti da direzioni opposte si incontrino, e allora uno dei due deve fare marcia indietro fino alla fine della galleria, per lasciar passare l’altro. – La sensazione difatti è molto particolare – proseguii nella mia chiacchierata solitaria – potrebbe sembrare quasi di venir lentamente inghiotti dalla montagna mentre si percorre quel tunnel cupo e asfissiante, per poi essere catapultati all’uscita, in un’altra dimensione, un’altra realtà oppure solamente in un’altra sosta in attesa di proseguire il viaggio. – Già, il viaggio – ripresi dopo un breve pausa in cui approfittai per accendermi una sigaretta – chissà perché questo genere di viaggi, mi è sempre piaciuto farli da solo, e non sto parlando esclusivamente di viaggi attraverso i grandi deserti messicani, sto parlando in generale di viaggi un po’ particolari, una sorta di vagabondaggi senza una mèta precisa, quasi dei viaggi all’interno del proprio io, perché è questo di cui si parlerà questa sera, ma anche dell’incontro di questo io con realtà per così dire alternative o meglio non ordinarie, come le definiva Carlos Castaneda nel suo celeberrimo libro “Gli insegnamenti di don Juan” – Avete già capito dove voglio parare vero? – chiesi al buio dello studio 4 dopo aver aspirato una lunga boccata di tabacco. – Eh sì, avete fatto centro, questa sera nella mia trasmissione si parlerà anche delle cosiddette “droghe allucinogene” o meglio, di sostanze psicotrope in grado di alterare la percezione della realtà. Qualche secondo di silenzio calò per un attimo nello studio. Isidro, al di là del vetro, ascoltava anche lui rapito il viaggio di quella notte, e anche se lui sapeva già a grandi linee di cosa avrei parlato, rimase per un attimo, nel buio della sua porzione di studio, ad ascoltare il silenzio. – Ehi là – dissi rompendo quel soave silenzio – ci siete ancora vero? – e a queste parole vidi il volto mal illuminato di Isidro come risvegliarsi da uno stato di dolce torpore, e i suoi occhietti febbricitanti riprendere a scorrere lungo lo smisurato mixer che da solo dominava. – Be’, spero di sì. So che quanto racconterò potrebbe dare fastidio ai benpensanti d’America, che anche se non lo ammetteranno mai, so che mi ascoltano anche loro questa notte, magari tra le braccia di qualche loro segreta amante oppure in qualche sordido locale in cui vanno a sfogare le loro frustrazioni, però stanotte, voglio comunque parlare anche di queste cosiddette droghe, tanto disapprovate dalla società in cui viviamo – che però ce ne vende i surrogati a ogni angolo di ogni metropoli di questa America malata – quanto rispettate e venerate dalle tribù di nativi americani che abitavano, e abitano tuttora quello che oggi è il nostro paese, e lo abitavano quando ancora i nostri progenitori erano dispersi nel Vecchio Continente. – Magari domani – ripresi dopo aver aspirato l’ennesima boccata di tabacco dalla mia maledetta Winston blue 100’s – qualche commissione di censura chiuderà definitivamente questa trasmissione per certi versi controcorrente adducendo come scusa una supposta apologia alle droghe da parte del sottoscritto. Penso però che sia importante, oltre che altamente educativo nell’ottica della conoscenza delle culture cosiddette indiane, cui ogni americano dovrebbe per lo meno chiedere scusa per come sono state massacrate dai nostri padri fondatori, parlare di questo, discutere, anche se ci concentreremo in particolare sull’uso rituale di sostanze che difficilmente qualcuno di voi avrà mai provato. Guardai per un attimo fuori dalla finestra dello studio, cercando di immaginare dove potessero nascondersi in quel momento i miei ascoltatori, le anime della notte, in mezzo a tutte quelle luci al neon e a quel buio per nulla rilassante, sicuramente diverso dal buio illuminato dallo scintillio di miliardi di stelle che avevo visto qualche settimana prima sulle montagne sopra Real de Catorce. – Be’ care anime della notte, cerchiamo per un attimo di alleggerire un po’ l’atmosfera di questa città così soffocante – dissi guardando fisso Isidro che in un attimo capì ciò che doveva fare. – Questo che sentite già in sottofondo, è l’ottimo blues di Levon Helm, già batterista dei The Band, in cui guarda caso, militava un certo Robbie Robertson, discendente di una di quelle tribù di nativi americani di cui parleremo stanotte, e questa è “When i go away”, e quando io me ne parto per altre dimensioni, chissà cosa mai potrebbe succedere… Quando Isidro alzò il cursore, il potente blues della strumentazione di Levon Helm avvolse lo studio 4 di melodie e ritmi tipicamente nordamericani e con la musica, anche la voce strozzata di Levon fu irradiata lungo le mille strade di quella buia notte americana. Alla conclusione del brano, lasciai che anche l’ultimo riverbero di quella musica sfumasse nel nulla della notte quindi, con il mio solito timbro di voce calmo e riflessivo ripresi a parlare: – Allora, come era questo brano? Vi ha regalato buone vibrazioni il blues di questo poliedrico musicista americano? Be’, a me sì, questo blues così deciso e ritmato ha il potere di rimettermi in sintonia con la notte, che è anche la porzione di tempo in cui mi è più concesso vivere, quindi viverla bene anche questa notte è già un buon risultato, no? Poi, dopo aver fatto cenno a Isidro che qualcuno mi andasse a prendere qualcosa da bere, continuai cambiando un po’ il discorso:  – Comunque ragazze e ragazzi, non so se in molti o in pochi tra voi abbiano mai provato qualche tipo di sostanza stupefacente, immagino che la maggioranza almeno una canna se l’abbia fatta in vita sua, comunque vorrei che ci raccontiate le vostre esperienze con queste cosiddette droghe, in particolare le vostre esperienze, positive o negative che siano state, avute consumando droghe tipo l’LSD, i cui effetti si avvicinano in qualche modo agli effetti che si hanno consumando i “bottoni” di una pianta curativa, in pratica un piccolo cactus, che nel Messico settentrionale, ma anche nel nostro paese, in Texas ad esempio, è venerato da molte tribù di nativi americani. Sto parlando naturalmente del peyote, il piccolo cactus di cui molti giovani e meno giovani, come me ad esempio, hanno letto in quel libro di Castaneda che vi dicevo poco fa oppure il meno famoso, ma ugualmente valido “Casa fatta di Alba” di Scott Momaday, quel peyote che cresce in abbondanza nel deserto ai piedi della conca dove sorge appunto Real de Catorce, e che molti occidentali vedono come una delle tante potenti droghe allucinogene da provare assolutamente. Be’, questo approccio tipicamente occidentale, non è altro che il modo più sbagliato di accostarsi a questo cactus, e difatti non sono pochi i giovani e meno giovani occidentali che avvicinatisi al peyote, ne sono stati malamente allontanati dal peyote stesso oppure hanno avuto più di un problema di salute che in qualche caso ha portato persino alla morte. E non ho nessun problema ad ammettere – ripresi dopo una brevissima pausa – che anch’io a Real de Catorce ci sono capitato, spinto anche dal desiderio, superficiale quanto volete, di sperimentare quelle esperienze che vengono così bene descritte nei due libri di Castaneda e Momaday. A quel punto, Isidro fece partire un altro brano blues in sottofondo, mentre dopo che mi fu portata una birra ghiacciata, e dopo che ne ingurgitai una lunga sorsata, conclusi il discorso lasciato in sospeso. – Allora care anime della notte, vi chiedo di raccontarmi al 800-105-333 se ne avete voglia, ovunque voi siate e qualsiasi cosa stiate facendo, le vostre esperienze di realtà non ordinarie. Intanto ascoltatevi questa sequenza di sette brani uno dietro l’altro, che si apre, non so se l’avete riconosciuto in sottofondo, con il blues di “Cocaine” di Eric Clapton. Il telefono è la vostra voce, care anime della notte, la musica è la nostra… Partita la musica, dopo un paio di minuti arrivarono puntuali le telefonate di quanti si prenotavano per parlare in diretta con me delle loro esperienze lisergiche o similari. Alcune erano profondamente patetiche e spesso non inerenti al discorso che volevo sviluppare, come ad esempio quella di un tizio, tale Joseph che affermava di farsi regolarmente di crack oppure quella evidentemente di un alcolizzato che diceva che il whiskey era il miglior sballo possibile “altro che quei tossici che si fanno di eroina o cocaina”. Arrivarono però alcune telefonate piuttosto interessanti, come ad esempio quella di un ragazzo che voleva raccontarci la sua esperienza avuta con l’LSD, e addirittura ne arrivò una di un tizio che diceva di essere un nativo americano della tribù dei Kiowa, e aggiungeva che regolarmente partecipava con la sua tribù a sedute purificatrici in cui lui e gli altri adepti di questa tribù, consumavano quello che loro chiamavano Donna Peyote. Alla fine della sequenza musicale programmata, ci fu un’interruzione pubblicitaria, che ci fu utile per restringere il campo delle telefonate che avevamo selezionato per andare in onda. Alla ripresa della diretta avevamo scelto tre telefonate piuttosto interessanti, di cui la prima fu presentata dal sottoscritto dopo una breve introduzione in cui risalutai i miei radioascoltatori nella maniera che mi era più familiare: – Bentornati anime della notte, bentornati all’ascolto di HXLA 105.3 FM, e della oramai leggendaria trasmissione notturna che il vostro Dave Hammond è onorato di trasmettere dallo studio 4 della 999 Tower della nostra metropoli. Allora, come va là fuori? Spero tutto bene, e spero anche che la nostra musica, le nostre chiacchiere e il viaggio che abbiamo intrapreso questa notte, vi facciano una buona compagnia, qualsiasi cosa stiate facendo. Poi, dopo alcuni secondi in cui si udì solo la musica in sottofondo della sigla della trasmissione, ripresi: – Come vi avevo annunciato prima della sequenza musicale appena andata in onda, abbiamo delle telefonate da parte di alcuni nostri radioascoltatori che vogliono raccontarci le loro esperienze psichedeliche o lisergiche che dir si voglia; in questo ambito si sa, gli aggettivi si sprecano. Presi così la lista che le telefoniste mi avevano compilato con i nominativi dei tre ascoltatori che avevamo deciso di sentire, e lessi mentalmente il nome del primo ascoltatore che sarebbe intervenuto, un certo Adrian, il nome con cui si era presentato ai nostri centralini, anche se effettivamente poteva essere solo un nome di fantasia, dato l’argomento un po’ delicato. – Abbiamo ora in onda – dissi dopo aver spostato un paio di fogli – dall’altro capo del filo, sperso in qualche posto lì in mezzo al magma urbano della metropoli, Adrian che ci racconterà la sua esperienza. Adrian, ci sei? Per un attimo abbastanza lungo da creare un minimo di apprensione tra lo staff della radio, si udì in sottofondo solo uno scricchiolio dovuto probabilmente allo strusciarsi della cornetta, da cui questo Adrian avrebbe parlato, alla sua orecchia o a parte dei suoi abiti, come se il radioascoltatore avesse in quel momento qualche problema al suo apparecchio telefonico; poi la voce incominciò a sentirsi abbastanza chiaramente, finché questa voce dal timbro pulito, che dava l’impressione di una persona abbastanza giovane e probabilmente molto sveglia, non si udì in tutta la sua pienezza. – Ciao Dave, sono Adrian come va? – Bene, bene caro Adrian e tu come stai? Come ti va questa notte? – risposi io, ascoltando ancora quel leggero scricchiolio di prima, provenire dall’altro capo del filo. – Bene Dave, grazie, tutto bene. Stavo ascoltando la tua trasmissione, come ogni notte, visto che faccio la guardia giurata in un grande centro commerciale appena fuori città, e… be’ devo farti i complimenti perché ogni notte passi musica davvero forte e poi tiri fuori argomenti molto interessanti, come quello di questa notte… – Già – gli risposi io giocherellando con una penna che mi ero ritrovato in mano – be’ grazie per i complimenti, speriamo di farti una buona compagnia durante le tue nottate di lavoro. Poi continuai: – Ok Adrian. Tu ci telefoni per raccontarci la tua particolare esperienza con una di queste sostanze di cui stavamo parlando vero? A quale sostanza si riferisce il tuo racconto? Dall’altro capo del telefono Adrian, dopo aver atteso che finissi la frase, rispose tranquillamente: – LSD Dave, era LSD. Ci fu qualche secondo di imbarazzante silenzio, con la musica della sigla in sottofondo che rendeva il tutto un po’ meno seccante, e con io che ero consapevole di star per varcare il probabile punto di non ritorno al di là del quale potevano esserci guai a profusione con i benpensanti della città, che non avrebbero gradito che neanche a notte fonda ci fosse qualcuno che parlasse di certi argomenti. Poi, rincuorato anche dai gesti di Isidro che al di là del vetro mi faceva segno di fregarmene delle paranoie, continuai: – Ok Adrian ok, era LSD. Puoi raccontarci la tua di esperienza con questa sostanza caro Adrian? E così, dopo che Adrian ebbe risposto affermativamente al mio quesito, il racconto ebbe inizio.


(fine prima parte – continua…)

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