México Sur Real – Il tavolo di André (seconda parte)

(seconda parte)

André camminando saluta la maggior parte dei negozianti e della gente che incrocia per strada, che bene o male conosce ormai da diversi mesi, dato che Erongarícuaro non è di certo una metropoli e tra paesani, si conoscono praticamente tutti, gente semplice, sorridente e schietta, gente che pur tra mille difficoltà e problemi, sembra felice e sufficientemente appagata. Quando André giunge all’entrata del negozietto che quel suo amico gli aveva indicato, trova una grossa porta di legno con tanto di pesante chiavistello non ancora chiusa, ma che evidentemente da lì a poco lo sarebbe stata, e un forte odore di legna tagliata che invade le immediate vicinanze del posto. André si sofferma un attimo sulla soglia, studia il tipo e la presumibile età del legno con cui la porta è stata fabbricata, osserva il bianco muro esterno, leggermente sgretolato nel bordo inferiore del vano che immette al laboratorio, parzialmente chiuso proprio dalla porta, e dopo essersi dato una vigorosa grattata alla testa, spinge la porta ed entra all’interno. Dentro è quasi tutto buio, la poca luce che riesce a entrare, lo fa da due finestre i cui vetri, resi oscuri dalla polvere e da generazioni e generazioni di frammenti di lavorazione del legno, e da inferriate arrugginite da piogge e umidità varie, impediscono sostanzialmente il propagarsi dei raggi solari. Quando la vista, dopo qualche secondo, si è finalmente abituata al buio, André nota abbastanza chiaramente che l’ambiente di lavoro è stracarico di pezzi di legno più o meno grandi, seghe, pialle, chiodi e viti di tutte le misure, oltre che di montagnole di segatura ammucchiata qua e là. “Sembra non ci sia nessuno” pensa un po’ sconsolato André che dopo essersi schiarito la voce con un mezzo colpo di tosse secca, chiede timidamente al nulla: – Hola ¿Hay alguien aquí? Un silenzio opprimente pervade l’angusto laboratorio, finché una sorta di taglio elettrico, accompagnato da un assordante rumore di oggetti vari in caduta, non ne decide improvvisamente la fine, risvegliando l’attenzione di André. – Chi è, c’è qualcuno che mi cerca? – fa una voce ruvida, la cui provenienza al momento André non riesce a localizzare. – Da una porta laterale, parzialmente nascosta dal buio e dal desmadre che regna là dentro, entra un uomo di media-bassa statura, avvolto da una tuta da lavoro dal colore indefinito, con in mano alcuni strumenti da lavoro. – Mi scusi, la disturbo forse? – chiede un po’ impacciato il nostro André che ora che si è avvicinato all’uomo, ne riconosce i particolari tratti indigeni, purépecha naturalmente, come quasi tutti in paese. – No, non mi disturba, almeno se non ha intenzione di fermarsi qui tutta la vita – esordisce sereno lui, che ora si toglie il capello e incomincia a squadrare André. – Mi chiamo André, André Breton signore, e sono venuto per proporle un lavoro, poiché un mio carissimo amico mi ha detto che da lei troverò senz’altro qualcosa al caso mio. – André Breton, el francés – esclama il falegname, per poi riprendere – sì, ho sentito parlare di lei signor Breton… – In persona, signor… – chiede curioso André. – José, mi chiamano José, anche se il mio nome completo è José Juan Pablo Atilano de Jesús, per servirla signor Breton, e per quanto riguarda i motivi per cui ho sentito parlare di lei, potrebbero essere di due generi: per la sua fama o per i pettegolezzi ma, lo sa ormai meglio di me, la gente di qui non ci fa troppo caso alla vita privata di chicchessia, per cui è senz’altro per il fatto che in paese ospitiamo un così importante artista il vero motivo per cui ho sentito parlare di lei, Don André. – Già, è vero, qui a Erongarícuaro la gente si fa gli affari propri pur non rinunciando mai ad aiutare chi è in difficoltà, ed è proprio per questo che ho scelto di vivere qui. Un sorriso di approvazione a questo punto, nasce dalle labbra del buon José, che finalmente poggia gli attrezzi che tiene in mano, e si appresta ad ascoltare cosa mai vuole il grande Breton da lui, povero falegname di un paesino sperduto del Michoacán. – Il lavoro che ho da proporle – continua André dopo aver a sua volta sorriso per il convincimento comune appena espresso – è un semplice lavoretto che immagino per lei, sarà un gioco da ragazzi o poco più, mentre io non saprei da che parte iniziare. – Si tratta – prosegue André dopo una breve pausa in cui estrae dalla tasca dei pantaloni un foglio piegato – della fabbricazione di un semplice tavolo, senza particolari lavorazioni né intarsi vari, solo un tavolo di buon legno massiccio, un tavolo come questo per esempio – e finendo di dire queste parole, srotola sotto gli occhi incuriositi di José una sorta di progetto in prospettiva del tavolo. José a questo punto, prende il foglio in mano, lo squadra incuriosito, lo gira e lo rigira, emette un paio di prolungati “uhmmm” e dopo essersi grattato vigorosamente la testa, sentenzia orgoglioso: – Bene signor Breton, entro una settimana avrà il suo tavolo bello che pronto, esattamente come me lo ha disegnato. – Molto bene signor José – gli risponde cortesemente André, aggiungendo – e mi raccomando di farlo il più possibile somigliante al mio disegno, ¿vale? – Non si preoccupi signor Breton, lo farò esattamente come lo ha disegnato. Uscendo dall’officina del signor José, André sembra soddisfatto, e ciò deriva dall’aver trovato il piccolo laboratorio ancora aperto e dall’essere riuscito a commissionare il tavolo di cui tanto aveva bisogno, e soprattutto sembra essere pienamente sereno, perché “il signor José sembra una persona onesta e affidabile, cioè proprio quello che cerco” pensa tra sé. Non sa invece, che la prossima visita all’officina del buon José, gli avrebbe radicato per sempre l’idea che “il Messico è l’unico paese genuinamente surrealista”. Passarono così i giorni, e tra una emborachada con qualche suo amico artista come lui, qualche poesia scaturita magari da una di quelle notti d’alcool, qualche passeggiata fino al lago, e qualche scambio di chiacchiere con qualche suo “compaesano”, arrivò finalmente il giorno di andare a ritirare il tavolo che José gli aveva finalmente finito di costruire, come aveva riferito una domestica di casa Breton, avvertita dallo stesso José. Così André quella mattina, accompagnato da un inserviente che lavorava per lui in casa, con tanto di carretto trainato da un asino per caricare il tavolo, e coinvolgendo anche la moglie Jacqueline nella “spedizione”, si reca al laboratorio di José, fiducioso nella buona riuscita del lavoro che lui gli aveva affidato. Anche quella mattina il cielo è terso, la leggera frescura della notte sta per venire cancellata da un sole che già si preannuncia incandescente, e tra le stradine di Erongarícuaro decine di uccelli cinguettano festosi, godendosi tatahuariata, il sole che da tempi immemori i purépechas, venerano e rispettano. Anche André sembra apprezzare la giornata serena e lo splendido sole che sembra asciugargli la pelle dall’umidità della notte, mentre Jacqueline preferirebbe magari stendersi un po’ sullo sdraio di casa, ad abbronzarsi un pochino, esibendo magari uno di quei “microscopici” costumi, almeno per i canoni dell’epoca, che si è procurata a Los Angeles, tramite una sua cara amica. Quando giungono all’entrata dell’officina, questa volta la porta è ben spalancata, e dall’interno, “avvolto nel perenne buio che sembra regnare lì dentro” pensa divertito André, giungono rumori stridenti di pialle, seghe e martelli in piena azione. “Come sarà mai possibile per un uomo solo adoperare tanti attrezzi insieme?” pensa incuriosito André, sapendo per certo che il buon José lavora nella sua officina da solo. – Don Joséeee… – urla divertito André mentre Jacqueline, quasi schifata per tutto il desmadre e la sporcizia che c’è lì dentro, e un po’ irritata per il rumore assordante che José sta producendo, fa un paio di passi indietro, evidentemente più a proprio agio sotto il sole mattutino di Erongarícuaro, che non dentro a quella fatiscente officina d’artigiano. – Don Joséeee… – ripete alzando la voce di un paio di toni André, ma anche così i rumori provenienti dall’altra stanza, non permettono alla sua voce di arrivare alle orecchie di José. André allora si dirige a piccoli passi verso la stanza dove presumibilmente José sta lavorando, e quando vi si affaccia, vede lo stesso José alla presa con due attrezzi contemporaneamente, di cui ne riconosce solo uno, una sega, e con un groviglio informe di legno a incastri, su cui spiccano una serie apparentemente infinita di chiodi e ferraglie varie. – Buenos dias Don José, ¿qué tal? – esordisce André, consapevole finalmente, che ora sì José l’ha sentito. E difatti, José appena riesce a udire la voce di Breton, arresta per qualche secondo il proprio lavoro, e gli fa cenno che ancora qualche secondo e poi sarà da lui. Il rumore quindi riprende, se possibile più chiassoso di prima, probabilmente a causa proprio della presenza del francés, che Don José vuole probabilmente servire il prima possibile, per continuare poi in pace il lavoro che sta facendo. Dopo poco meno di cinque minuti, finalmente José poggia delicatamente i suoi attrezzi – sì, si fa per dire, visto che li scaraventa sopra a un bancone da cui, per effetto della caduta degli attrezzi stessi, si alza una nube asfissiante di polvere e schegge di legno – e si dirige, tendendo la mano in segno di benvenuto, verso l’illustre cliente. – Don André – lo accoglie raggiante José – ¿comó le ha ido? – Bene, molto bene grazie – risponde garbatamente André, che un istante dopo gli stringe vigorosamente la mano. – Il tavolo che mi ha ordinato è pronto Don André, e anche se non è stato semplicissimo da realizzare visto il particolare progetto – continua José asciugandosi la fronte con un fazzoletto impolverato almeno quanto la fronte stessa – posso dire che è riuscito molto bene, se vuole seguirmi fino al magazzino…  André allora si mette diligentemente a seguire Don José, anche se non ha bene capito a cosa si riferisse il falegname quando ha pronunciato la frase “visto il particolare progetto”. Lo capisce quando, appena varcata la soglia della stanza che evidentemente funge da magazzino, dove Don José l’ha portato, gli si spalanca la vista sul tavolo a lui destinato. A guardarlo bene, sembra un tavolo realizzato con un ottimo legno, sicuramente massiccio, e sicuramente proveniente dalle foreste che circondano il lago di Pátzcuaro. Ci sono solamente alcuni “particolari” che temporaneamente sfuggono per così dire ad André: il tavolo cioè ha tutte e quattro le gambe di una lunghezza diversa dalle altre, e una addirittura è cortissima, e anche la forma stessa del piano del tavolo non è rettangolare, ma a forma di rombo. Per un istante André resta a bocca aperta, cercando di capire cosa mai rappresenterebbe quell’obbrobrio, mentre Don José soddisfatto, sta ammirando la sua creazione, senza accorgersi della faccia di André. Poi all’improvviso, una geniale intuizione cambia radicalmente l’umore di Breton, tanto che quasi uscisse da un incubo, gli si illuminano gli occhi, e la sua voce gli fa dire entusiasticamente: – C’est incroyable… celui-ci est vrai surréalism, vrai surréalism… Don José naturalmente, non capendo una parola di francese, sorride e approva, mentre André, andando a chiamare la moglie e l’aiutante, ripete “c’est incroyable, c’est incroyable” neanche avesse visto gli Ufo. Qualcosa di strano però, era davvero successo, e in effetti, ciò che Breton era riuscito a capire, un po’ strano lo era, almeno agli occhi di un occidentale. In pratica il buon José aveva realizzato il tavolo tal e quale lo aveva disegnato Breton, cioè in prospettiva, senza essere minimamente sfiorato dall’idea del surrealismo di quella sua creazione, mettendo così in pratica ciò che quattordici anni prima proprio Breton teorizzava nel suo Manifesto Surrealista, in cui affermava che il surrealismo è “un automatismo psichico puro, attraverso il quale ci si propone di esprimere il reale funzionamento del pensiero”. Breton naturalmente, pagò entusiasticamente il lavoro a Don José, gli strinse varie volte la mano, e dopo aver caricato il tavolo “surrealista” sull’apposito carro aiutato dal suo assistente indigeno, e averlo assicurato con una corda resistente, se lo portò a casa, dove lo tenne per svariati mesi, esattamente come fosse un’importante opera d’arte del valore di migliaia e migliaia di dollari, in realtà frutto del lavoro di un modesto falegname indigeno, dallo spiccato senso del surreale.

Sarà forse stato per un gesto di gratitudine verso il paese che per oltre un anno l’aveva ospitato o forse per riconoscenza verso Don José e i suoi compaesani che grazie anche a quell’episodio, avevano fatto maturare in Breton il convincimento che davvero il Messico fosse il paese del surrealismo, fatto sta che l’artista francese volle lasciare il paesino regalando alla collettività, che allora come in parte oggi, era rappresentata dalla chiesetta di Erongarícuaro, una curiosa croce in ferro battuto, surreale nel suo essere stata forgiata da uno che di certo non era un frequentatore di luoghi sacri del cattolicesimo, ma perfettamente in linea con lo spirito surreale che André vide in questo paesino.

 

Note:

La storia qui narrata, di cui è protagonista niente meno che il padre del surrealismo, ovvero André Breton, è una vicenda realmente accaduta all’artista francese durante il suo soggiorno di circa un anno nel pueblo di Erongarícuaro, anche se qui è stata naturalmente romanzata dal sottoscritto. Per documentarmi, oltre ad aver visitato di persona il lago di Pátzcuaro, e oltre all’aiuto di vari siti internet, mi sono basato principalmente su una mia personale sorta di Bibbia, ovvero quell’ormai celeberrimo “La polvere del Messico” di Pino Cacucci, che tante persone ha fatto innamorare di questo meraviglioso paese che è appunto il Messico…

Invito i lettori, come sempre, a cliccare sui banner pubblicitari presenti in questo e nei precedenti articoli del blog: è una piccola – anche se noiosa – azione, ma permette al sottoscritto di ricavare un minimo di utile da un lavoro che altrimenti non avrebbe nessun ritorno. Ricordo agli attenti lettori inoltre che il libro completo in cartaceo, è richiedibile – al costo di 14 euro + 1.28 euro (spedizione ordinaria) o 3.63 euro (spedizione raccomandata) – così come “Venti pirati. Storie di venti pirati e di venti di libertà” (15 euro + 1.28 euro in spedizione ordinaria o 3.63 euro spedizione raccomandata), all’indirizzo: [email protected]

Verified by MonsterInsights