México Sur Real – In volo con le monarcas (terza parte)

(seconda parte)

Ma non avrebbe solo cercato la droga per sua moglie, poiché appena fuori dall’appartamento della cugina, che senza indugio accettò il gravoso incarico, si mise a cercare un suo amico che era in mezzo a questi traffici da un po’ di tempo, e conosceva tutti i movimenti antichi e recenti di droga, bande e pusher. Si recò a un bar, uno di quei sordidi locali tipici del quartiere, e lo trovò lì che leggeva il giornale bevendosi senza fretta una birra: – Hola Rafaelito, qué tal? – esordì Miguel senza manifestare troppo entusiasmo nel vederlo. – Per la Virgensita Santa Miguel, pensavo fossi morto lì tra i ricconi di La Jolla. Come stai? – Non troppo bene Rafa, ed è per questo che sono venuto a cercarti – gli rispose amaramente Miguel. – Perché, cos’è successo carnalito? – gli chiese con sincero interesse l’amico, mentre Miguel pensava che suo carnal, suo fratello di strada, non lo era più da un bel po’. Allora prese a raccontargli la storia, concludendo che intendeva trovare questa Amanda, e fargliela ingoiare quella roba che propinava alla sua Evelyn. – Tu sei pazzo carnalito, quella è una puttanella protetta da Don Pepe Torres in persona, se le fai qualcosa firmi la tua condanna a morte – gli rispose tutto d’un fiato Rafael, mentre con l’indice della mano destra batteva piccoli colpetti sulla sua tempia. – Tu dimmi solo dove la trovo, e non preoccuparti di me, ok? – disse deciso Miguel. Di fronte a tanta decisione, Rafael non poté fare altro che dimostrare il massimo rispetto, retaggio delle regole non scritte della calle dove, come diceva una vecchia canzone messicana, la vida no vale nada, e gli fornì le indicazioni per trovarla. Poi aggiunse un laconico: – Cuidate hermanito, è stato un piacere rivederti. Appena fuori dal bar, Miguel si diresse frettolosamente verso l’indirizzo che Rafael gli aveva fornito, e dopo qualche minuto, lo trovò. Conosceva già il posto, un bar forse meno squallido di quello in cui aveva incontrato Rafael, ma altrettanto malfamato, frequentato da papponi, spacciatori e drogati. Entrò tranquillamente, cercando di farsi notare il meno possibile, e si andò a sedere in un tavolino vicino alla porta d’uscita. Ordinò alla cameriera una birra, e attese, certo che quella carogna sarebbe entrata lì dentro prima o poi. Rafael gli aveva spiegato che lì Amanda incontrava una volta al giorno un emissario di Don Pepe Torres, cui dava i soldi che le ragazze che lei gestiva avevano guadagnato il giorno prima, e che questi dopo, le dava la sua parte. Ogni giorno i due si vedevano alle cinque del pomeriggio, solo che Amanda era solita arrivare sempre con una buona mezz’ora di anticipo, cosa che era senz’altro gradita a Miguel, per mettere in atto quello che aveva in mente. Quando l’orologio, sopra al bancone del bar, segnava le quattro e trentaquattro, la porta del bar si aprì, e ne entrò una donna dai capelli castani, senz’altro una gringa. Con sé aveva una valigetta ventiquattrore, evidentemente vuota, perché quando la poggiò sopra al tavolo che la donna aveva scelto, non troppo lontano dal tavolo di Miguel, questa risuonò senza alcun dubbio vuota. Miguel allora si alzò, si avvicinò alla donna e quando gli era ormai davanti le chiese: – Amanda? Lei distogliendo lo sguardo dalla rivista che stava leggiucchiando con indifferenza, lo squadrò senza capire bene cosa diamine volesse quell’uomo, e poi con un certo disprezzo gli ragliò contro: – Cosa? – Sei Amanda te, vero? – si affrettò a dire lui, mentre lei, che questa volta aveva capito bene, ribatté: – Chi lo vuole sapere? – Lei – rispose Miguel lasciando intravedere la canna dell’inquietante Ruger Security Six 357 Magnum che teneva nascosta nella tasca del giubbino di pelle nera che indossava. Lei ebbe un sussulto che Miguel interpretò come una vaga reazione, tanto che caricò il colpo in canna. – Ok amico – sibilò lei – stiamo calmi, ok? Lui fece segno con la testa di uscire dal locale, e quando furono fuori, mentre la stringeva per un braccio simulando un poco credibile abbraccio, tenendola sempre sotto mira, le disse di salire in macchina. Quando furono dentro l’abitacolo, lei le chiese in maniera abbastanza arrogante: – E tu chi saresti? Lui allora, decise di venire subito al dunque, senza tanti giri di parole: – Mi presento subito mia cara. Mi chiamo Miguel, e sono il marito di Evelyn. – Merda – mormorò lei, cercando di vedere con la coda dell’occhio se la portiera della macchina era chiusa dall’interno. Non lo era, ma Miguel capì subito, e si affrettò immediatamente a chiuderla. – Senti amico – disse lei spaventata – non devi prendertela con me se la tua bella mogliettina ha ripreso a farsi, anch’io… Miguel non la fece finire di parlare. Un man rovescio pose fine alle sue parole, mentre dalla bocca un sottile rigagnolo di sangue incominciava a colargli sulla mandibola e poi sul mento. – Non so se la signorina ha capito, ma il coltello dalla parte del manico ce l’ho io, quindi nessun commento e nessuna menzogna. Sei un essere disgustoso, hai iniziato a regalare ad Evelyn il crack perché sai benissimo che si diventa dipendenti da quella merda pressoché immediatamente, quindi ora stammi ad ascoltare altrimenti ti ammazzo qui senza lasciarti il tempo neanche di gridare. Amanda raggelò dal terrore, poi Miguel le chiese: – Lavori per quel porco di Pepe Torres vero? Amanda non rispose. – Dai lo so che lavori per lui, dimmi dove lo trovo, quel maiale… – Se ti dico qualcosa mi ammazza – piagnucolò lei oramai terrorizzata, mentre fuori dall’auto la vita scorreva tranquillamente come tutti i giorni. – Tanto comunque se non ti ammazza lui, ti ammazzo io, quindi ti conviene dirmelo dove si trova – urlò Miguel portando le sue mani unite al collo di Amanda. Il volto della donna divenne paonazzo, le mancava l’aria, e quelle mani stringevano con una forza tremenda, una forza che solo la disperazione può alimentare… Tutto a un tratto Miguel lasciò la presa, mentre l’improvvisa disponibilità d’aria per i polmoni di Amanda, la fece tossire fino quasi a rimettere. Poi, quando la situazione ritornò calma o quasi, lei prese a massaggiarsi il collo, duramente indolenzito da quel tentativo di strangolamento. E mentre si massaggiava il collo, tenendo il capo chino, ebbe il modo di riflettere, di pensare a Evelyn, a lui, e a sé stessa. Poi ebbe finalmente il coraggio di guardare in faccia il suo aggressore, che se ne stava con lo sguardo perso oltre il finestrino della macchina, e che aveva preso ora a singhiozzare.
– Senti… Miguel.. ciò che ho fatto a tua moglie e a te…, ma soprattutto alla vostra bambina, è terribile… io non so come fare per rimediare… e penso che purtroppo neanche tu riuscirai a far granché. Neanche ammazzandomi o ammazzando Pepe Torres e tutta la sua famiglia, riuscirai a salvare tua moglie. E’ triste, ma è così… – Be’ guarda, se vuoi ti do l’indirizzo dove si nasconde Don Pepe, se ti fa piacere… lo trovi in un villino a Lower Hermosa, non lontano da La Jolla, l’indirizzo è Camino de la Costa 6200, però credimi… Evelyn non tornerà a essere quella di prima neanche se riuscirai ad ammazzarlo…, sempre che ritorni a essere qualcosa… e poi hai la bambina, con chi crescerà se tu vieni ucciso dai sicari di Don Pepe o se finisci in galera. Le ultime parole Amanda, le pronunciò con un groppo alla gola, dopo di che si mise silenziosamente a piangere, finché non poté trattenere più le lacrime, che sgorgarono tumultuose dai suoi grandi occhi tristi. Aveva già deciso che se non la avesse ammazzata lui, si sarebbe tolta la vita lei stessa. Quando i singhiozzi di Amanda si affievolirono, Miguel si voltò verso di lei, e con un gesto secco, le aprì, pigiando un tasto sul suo lato della portiera, la chiusura che la teneva prigioniera dentro quella macchina. Lei si voltò verso di lui, aspettando che gli dicesse qualcosa, ma lui mosse solo leggermente la testa, nel gesto di dirle che forse poteva uscire. Lei però non si mosse, temeva che volesse farla uscire per ucciderla, anche se poi pensò “tanto poi dovrei uccidermi io, tanto vale che sia un altro a farlo…”. Lui però, vedendo che non si decideva, le disse in tono quasi neutro: – Vai, sei libera… – Come… libera, ma… – farfugliò lei. – Sì sei libera, vattene – le disse serissimo lui. A quel punto Amanda, non sapeva cosa dire, cosa fare, ogni gesto o parola, le pareva potesse offenderlo o irritarlo. Poi si decise e disse: – Lascia perdere Pepe Torres, torna da tua moglie, dalla vostra bambina, e state insieme il più possibile…
Miguel pensò che quella donna le aveva dato l’unica soluzione possibile, per quanto quella potesse essere una soluzione… La guardò per un lasso di tempo indefinito, dritta negli occhi, poi lei aprì la portiera, e uscì triste senza una parola in più, senza voltarsi. Le lacrime scendevano sul suo volto mentre camminava dritta verso il suo appartamento, dove si sarebbe suicidata. Anche Miguel piangeva dentro l’abitacolo della sua macchina, un pianto che sapeva di dolore e sconfitta probabilmente molto simile a quello di Amanda. Alla fine accese il motore e sterzò deciso verso l’uscita di quel parcheggio, verso il Barrio Logan e verso la casa di sua cugina María. Sua moglie e Nora lo stavano di certo aspettando. Il giorno dopo, sul giornale, Miguel venne a sapere che una certa Amanda Peterson, ex-prostituta di lusso, legata al clan di Don Pepe Torres, si era suicidata nel suo appartamento sparandosi un colpo alla testa.

 

L’agonia di Evelyn durò quasi sei mesi, sei mesi in cui lei non era riuscita a smetterla con il crack, sei mesi in cui Miguel non era riuscito farla smettere con il crack, spendendo una fortuna – quella che Evelyn aveva accumulato con quel mestiere, quella che avevano ottenuto vendendo la villa di La Jolla, e gli spiccioli che Miguel si era guadagnato con il suo lavoro – tra la droga e le cure che avevano tentato, sei mesi però che divisero insieme, tutti e tre, tra le gioie – poche per la verità – e i dolori, i patimenti. Poi scoprirono che Evelyn aveva l’Aids, frutto probabilmente di un qualche rapporto non protetto che lei aveva avuto nei mesi precedenti con qualche cliente, e alle spese che Miguel sosteneva già, si aggiunsero le spese mediche per tentare una qualche cura. La cugina María, i pochi parenti di San Diego, e i molti che ancora vivevano in Messico, molti amici e conoscenti del Barrio aiutarono Miguel e la piccola Nora in tutte le maniere, anche economiche. Non ci fu però nulla da fare. Il giorno del suo trentunesimo compleanno, alle dieci e venti di mattina, Evelyn moriva nel suo letto in casa della cugina di Miguel, proprio mentre le stavano preparando la torta per la sua festa, cui comunque lei non avrebbe potuto partecipare. Nora pianse inconsolabilmente per tre giorni consecutivi, mentre al funerale, cui partecipò una folla da stelle del cinema, la piccola smise improvvisamente di piangere, riversando le proprie lacrime ormai secche all’interno dei suoi occhi. In quel triste giorno, la piccola smise anche di parlare, e cadde in un’apatia che qualche dottore diagnosticò persino come uno stato di pre-morte. Miguel affranto, non sapeva che fare, tutto il mondo gli era caduto addosso, e nonostante i mille aiuti che riceveva dalla grande familia che erano i suoi parenti e la comunità ispanica di San Diego, non intravedeva una via d’uscita, ora che anche Nora si stava come lentamente spegnendo. Poi, nello scoramento generale, gli si accese una lampadina, un’intuizione che allora gli parve solo un altro tentativo, forse l’ultimo, ma che poteva essere fondamentale: tornare con la piccola in Messico. Certo Nora lì non conosceva nessuno, e poi non parlava una sola parola di spagnolo, che comunque non le sarebbe stato granché utile in quel periodo di mutismo esasperato, però valeva la pena provarci, per dare se non altro un senso alle loro vite… Così dopo essersi licenziato dal lavoro, e aver preso la liquidazione, partirono con la loro vecchia auto per Angangueo, paesino del Michoacán orientale, da dove erano originari Miguel e la sua famiglia, i cui numerosi componenti vivevano, per la maggior parte, ancora lì. Durante il lungo tragitto, Nora parve in parte risvegliarsi da quel terribile torpore che la accompagnava dalla morte della madre, aiutata probabilmente dai colori, dai suoni e dagli odori che aveva colto fin dal loro ingresso in terra messicana, però, anche se aveva recuperato un po’ di appetito, dalla sua bocca non usciva ancora una sola parola. Quando finalmente, dopo quasi una settimana di viaggio in macchina, arrivarono al villaggio, trovarono ad attenderli una numerosa folla composta per la maggior parte da contadini o boscaioli: erano i parenti di Miguel, e qualche compaesano curioso. Nora fu accolta con un calore straordinario. Subito quasi tutti i paesani della famiglia di Miguel la invitarono nelle ore e nei giorni seguenti a mangiare una torta, un taquito oppure solo un semplice tè, nelle loro modeste abitazioni. Andarono a vivere nella casa colonica dei genitori di Miguel, in cui ebbero assegnate due grandi stanze vicine in cui avrebbero dormito. L’aria di montagna di quei luoghi, parve piacer fin da subito alla piccola Nora, abituata fino allora al traffico di San Diego, e all’aria falsa di La Jolla, anche se la bambina ancora non parlava, e nonostante stesse abbastanza volentieri in compagnia di cugini e cugine più o meno della stessa età, aveva sempre un atteggiamento di amara solitudine impresso nei suoi occhi, e il suo dolce sorriso, quello che raramente si stampava sul suo viso, non durava che pochi secondi, per poi ritornare ad essere una righetta rosata su di un volto indifferente. Un giorno però, accade qualcosa. Uno dei tanti zii, lo zio Hectór, che fra i molti sembrava essere anche quello un po’ più benestante degli altri parenti, invitò tutti i nipoti sulla sua nuova camioneta da quindici posti a vedere il Santuario de las Monarcas parole che a Nora non dicevano assolutamente nulla, ma poiché andava a vedere questo “santuario” anche Paula, una delle sue cugine preferite con cui aveva stretto immediatamente una silenziosa amicizia, e poiché Miguel in quel momento non c’era, impegnato a dare una mano ai parenti nella fattoria di famiglia, lei aveva accettato. Lungo il tragitto, osservò grandiosi alberi dalla chioma imponente, splendidi paesaggi montani, scintillanti torrenti dalle acque cristalline e su tutto, ciò che di più colpì la sua attenzione, furono i dolcissimi sorrisi dei suoi numerosi cugini e cugine, che parlavano in continuazione di mariposas, senza che lei riuscisse a capire a cosa diavolo si riferissero. Quando il potente pick-up di zio Hectór si arrestò, tutti i bambini scesero di corsa, facendo subito sorridere il buon zio, che dentro la sua testa pensava a come avrebbe fatto a sorvegliare tutti quei marmocchi. Allora, facendo squillare la sua voce baritonale, radunò tutti i cuginetti, gli raccomandò di stare tutti uniti e di seguirlo passo per passo, e nominò i due più grandi suoi aiutanti, con il compito di sorvegliare i più piccoli. Nora naturalmente non aveva capito nulla anche questa volta, ma quando la voce di zio Hectór si parò, e tutti presero a seguirlo, si accodò al resto dei cugini, tenuta per mano da Paula, di cui era praticamente coetanea, dato che le separavano solo due mesi di differenza alla nascita. Si incamminarono per un sentiero abbastanza largo e comodo, che dopo un paio di centinaia di metri, si addentrava in mezzo a un fresco bosco montano. Il panorama era sicuramente fantastico, ma i grandi alberi, spesso altissimi e dalle chiome esuberanti, non permettevano di osservare che i loro spessi tronchi. In compenso il bosco nascondeva particolari fatati per quella frotta di bambini. Pigne, funghi, rami secchi d’albero, foglie e piccoli sassi, rappresentavano difatti un inesauribile divertimento per quei piccoli esploratori, prima fra tutti per Nora, cui tutte quelle novità, che aveva visto solo in televisione, parevano appartenere a un mondo fantastico. A un certo punto, dove il sentiero passava a lato di un piccolo dirupo, che in realtà era una minuscola collina, a Nora parve di vedere uno spaccato di panorama, e poiché da un po’ aveva lasciato la mano della cuginetta per raccogliere una pigna particolarmente grande e bella, si fermò per un istante, e tra due grandi alberi scorse un dolce declino ricoperto da un favoloso tappeto d’erba, un prato frutto probabilmente del disboscamento controllato che periodicamente i boscaioli della zona praticavano, che agli occhi della piccola parve un invito a rotolarsi. Alzando un po’ lo sguardo, notò in lontananza una strana nube arancione avvicinarsi a un albero posto sulla collinetta opposta a dove si trovava lei. In quel momento fu presa un po’ dal panico, perché quella strana nube arancione la inquietava, anche se non capiva esattamente il perché, e quando volgendo lo sguardo all’interno del bosco dove aveva lasciato la lunga fila di cugini, non scorse più nessuno, nemmeno Paula, quell’angoscia aumentò, fino a divenire quasi insopportabile. Quando di nuovo si voltò verso la collinetta dove aveva visto quella strana nube, notò subito che un albero si era colorato di quello stesso arancione che formava qualche secondo prima quella nube, e inoltre sembrava come se quella tinta avesse reso l’albero come vivo, scosso in continuazione da frenetici tremolii della corteccia e del fogliame stesso dell’albero. Poi, tutto a un tratto, si udì un sinistro scricchiolio espandersi per tutta la piccola vallata, e subito dopo Nora, profondamente meravigliata e anche spaventata, vide chiaramente il maestoso albero rotolare lungo il verde pendio, proprio come aveva desiderato fare lei, qualche secondo prima. La nube, rialzatasi dall’albero qualche istante prima che questo si schiantasse, si diresse quindi proprio in direzione di Nora, cosa che terrorizzò ancor di più la ragazzina. La paura però, la immobilizzò, così quando stava ormai per essere investita da quella nube arancione che fremeva sospesa nell’aria, notò da prima, in mezzo a tutto quell’arancione, delle fini striature nere, poi quando fu avvolta dalla stessa, poté finalmente vedere quella meraviglia. Erano mariposas monarcas, le farfalle che ogni anno a metà stagione autunnale, migrano dal sud del Canada per venire ad accoppiarsi tra i boschi del Michoacán orientale. Migliaia, milioni, miliardi di farfalle che con i loro battiti di ali – arancioni appunto, con fantasiose striature nere – la avevano completamente ricoperta. Nora però, dopo l’iniziale timore, incominciò a sentirsi a proprio agio in compagnia di quelle farfalle, anche quando avvertì chiaramente e con immenso stupore, che non appoggiava più i piedi sulla terra.

 

Stava volando. Volava accompagnata da quello straordinario nugolo di farfalle, salendo e scendendo in perfetta simbiosi con quegli straordinari insetti, anche se non riusciva a vedere in che direzione, poiché le farfalle erano davvero moltissime e volavano tutte compatte. A un certo punto, le farfalle allentarono un po’ la rigida formazione di volo che avevano adottato, lasciando intravedere a Nora spicchi di cielo azzurrissimi, spicchi che spuntavano alla sua destra, alla sua sinistra, davanti e… sotto. Non c’era ormai alcun dubbio. Stava volando. In seguito, l’azzurro fu gradualmente sostituito dal bianco, un bianco che man mano si avvicinava, evidenziava un candore inconsueto, una purezza strabiliante. E dopo qualche istante, le farfalle scomparvero come per magia, e da quel deserto bianco, comparve sua madre Evelyn, di cui si notavano solo la faccia e le mani, giacché vestiva una lunga tunica bianca, della stessa tonalità di bianco del paesaggio circostante. – Mamma – disse come per magia Nora, non riuscendo a pronunciare altro. Evelyn le sorrise, e senza dire nulla, le fecce segno con le mani di avvicinarsi. Quando ormai furono arrivate a pochi passi l’una dall’altra, si sciolsero entrambe in un meraviglioso abbraccio che Nora aveva sognato per lunghi mesi nel suo ostinato mutismo e in cui finalmente poté abbandonarsi. Le “monarcas” intanto, dopo aver danzato attorno alle due, anche se in una dimensione intermedia non visibile a madre e figlia, ritornavano spensieratamente alla dimensione degli umani, a colorare d’arancione striato di nero, boschi, pascoli e montagne messicane, da loro tanto amate quanto i sogni degli umani di cui sono da milioni di anni, le taciturne guardiane…

 

Note:

Questa triste vicenda, nata probabilmente dopo una qualche cena un po’ troppo pesante, è stata totalmente inventata dal sottoscritto, tranne che in parte, per l’episodio finale in cui viene descritto l’arrivo, presso il “Santuario Mariposa Monarca”, dalle parti di Angangueo, nel Michoacán orientale, di milioni e milioni di farfalle “monarcas” appunto, un fatto di per sé “surreale” pensando che questi lepidotteri percorrono ogni anno migliaia e migliaia di chilometri, provenienti dal Canada meridionale. Se si pensa poi che riescono a ricoprire con i loro colori sgargianti, prati, campi e boschi, arrivando perfino ad abbattere maestosi alberi quando tutte in gruppo si radunano tra i rami di qualche sfortunato pino, allora il “surrealismo” reale, tipicamente messicano, riesce ad elevarsi davvero a livelli di “raffinatezza” difficilmente raggiungibili.

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