México Sur Real – In viaggio verso Tulum (prima parte)

Non so esattamente come è iniziato tutto, probabilmente il progetto di quel film era dentro la mia testa già da molto tempo, sedimentato in qualche affranto della memoria. Penso semplicemente che i fatti, tutti i fatti accaduti in seguito, abbiano in qualche modo sbloccato un’idea che altrimenti sarebbe rimasta lì sepolta da un mare di altre idee, progetti, programmi, sogni… Già i fatti. Quello che è accaduto in quel periodo ha qualcosa di straordinario, e inspiegabile. Cioè il materiale perfetto per entrare in un mio nuovo film. Ma come avrebbe dovuto iniziare questo film? Sarebbe forse giusto iniziare a raccontare dal principio tutta la faccenda, cioè da quella tarda mattina in cui andai, come spesso mi capitava di fare, alla Feltrinelli di Via del Babuino, a pochi passi da casa mia. In quel periodo ero alla ricerca di un soggetto per la realizzazione di uno spot, una sorta di “pubblicità progresso” a favore di non ricordo neanche quale causa, mi sembra fosse per invogliare la gente ad andare al cinema o a risparmiare energia, comunque sia una nobile causa, non certo degli spot commerciali che invece, inseriti nel mondo del cinema, al contrario ho sempre combattuto, perché paragonabili a veri e propri cancri che minano l’esistenza stessa del vero cinema. Comunque sia, stavo girovagando tra gli scaffali di quella libreria, quando mi capita di scorgere una copertina che richiama la mia attenzione: su uno sfondo in bianco e nero, gli occhietti che emergono dal faccione di un gorilla dubbioso e un po’ malinconico, mi stanno fissando implacabilmente, come se volessero attirare la mia attenzione. Lo squadro per un po’ finché, a quel faccione dubbioso che sembra chiedersi se potrà andare bene per quel soggetto che ho in mente, non mi viene da dirgli mentalmente: “Ehi amico, ce l’hai fatta, sei riuscito a farti notare, non c’è dubbio”, e mentre penso a questo, con la mano tiro su il libro, e cerco il titolo e il nome dell’autore. “Morgado Kitchen” è il titolo che a lettere cubitali bianche su sfondo nero, spicca sotto il faccione del mio amico scimmione, mentre un po’ più in basso compare il nome dell’autore, Italo Losini. “E chi sarebbe mai”, penso fissando quella copertina che confesso, sono stato sul punto di strappare e portarmi a casa, lasciando il libro sugli scaffali. Poi mi accorgo che quella è l’unica copia lì presente, quindi probabilmente questo Italo Losini è un esordiente, e tutti sanno che Leonardo Giannini, il grande regista Leonardo Giannini, ha sempre avuto un debole particolare per gli esordienti, quindi decido di comprarlo. Quella notte stessa mi metto a leggerlo, e pagina dopo pagina me lo sarei divorato, tanto che qualche ora prima che fosse giorno, lo avevo già finito. “Mi piace” pensai guardando dalla terrazza di casa mia il sole nascere, e mi piacque a tal punto che dopo qualche veloce ricerca, nella quale scoprii che questo Italo Losini viveva a Bologna, già quella mattina, ero nel mio studio di Cinecittà, con l’elenco del telefono di Bologna in mano, a cercare questo giovane scrittore che tanto mi aveva colpito. Nell’elenco purtroppo, trovai solo una certa Lella Losini, ma decisi ugualmente di tentare, e posso dirlo, mi andò bene. Dopo qualche squillo, una voce inconfondibilmente femminile rispose alla cornetta: era questa Lella cui, dopo essermi presentato, e dopo avergli detto che avevo letto il libro di questo Losini, chiesi di Italo. – E’ mio fratello – rispose la voce femminile – ma non vive qui con me – aggiunse Lella, dopo aver sarcasticamente dubitato sulla mia vera identità che spesso mi compiacevo di rivelare sensazionalisticamente in occasioni come queste. – Ahh, e lei sarebbe Leonardo Giannini, e magari fa anche il regista, vero? – disse lei in tono beffardo. – Ma certo che faccio il regista, e comunque la voglio pregare – risposi io per nulla risentito – di dare questo numero a suo fratello, è il mio numero privato. Ho bisogno di parlare con lui. Così, dopo avergli dato il numero, riattaccai, speranzoso in un contatto che già qualche giorno dopo, si concretizzò. Al telefono, il giovane scrittore mi era sembrato da prima dubbioso almeno quanto la sorella qualche giorno prima, ma poi, con lo svilupparsi della conversazione, aveva pian piano capito che quello che stava all’altro capo del telefono era davvero Leonardo Giannini che gli stava dicendo che aveva letto il suo libro e che gli era piaciuto, tanto che lo invitava a Roma per conoscerlo di persona per proporgli nell’occasione, eventualmente una qualche collaborazione. Italo naturalmente accettò all’istante, e quando qualche giorno dopo, assieme a Cesarone, il mio fedele collaboratore di una vita, lo incontrai nello studio di Cinecittà, mi confessò che al momento, aveva pensato a uno scherzo. – Deve sapere dottor Giannini – disse in tono amichevole, ma troppo formale, ragion per cui dovetti interromperlo per consigliargli di darmi del tu, sottolineando che non ero di certo un medico – che ho un paio di amici che amano fare questo genere di scherzi crudeli, quindi quando mia sorella mi ha detto che aveva telefonato “niente poco di meno che” Leonardo Giannini, che aveva letto il mio libro, che gli era piaciuto molto e che a lei, a mia sorella, sembrava proprio un pessimo scherzo di cattivo gusto be’, naturalmente ho dubitato anch’io, poi però, dopo aver composto il suo… ehm, il tuo numero privato e aver ascoltato la tua voce, be’ mi son dovuto ricredere… Parlammo per un paio d’ore delle sue esperienze, dei suoi e dei miei progetti, vennero fuori le nostre idee che spesso sembravano fossero della stessa persona, e be’, devo dire che il ragazzo mi entusiasmò in tutto. In particolare mi incuriosì un suo lungo periodo di soggiorno in Messico, paese che grazie a quell’esperienza aveva conosciuto profondamente. Gli rivelai che da sempre il Messico mi aveva attratto, ma non mi era mai capitata l’occasione di lavorare a qualcosa che riguardasse quel paese, cosicché ne convenimmo che un progetto in comune poteva di certo riguardare proprio il Messico, in che forma e in che contesto, si sarebbe visto in un secondo momento, magari con un viaggio di “ricognizione” per vedere cosa ne sarebbe venuto fuori. Italo naturalmente trovò magnifica l’idea, ma poi, dopo che ci fummo salutati e dopo un periodo di consistenti contatti, in cui vennero fuori qualche vaga idea sua, e qualche ancor più vaga mia, le telefonate e le reciproche visite divennero meno frequenti, anche perché in quel tempo stavo lavorando a Il canto della luna, e quel film davvero mi coinvolse in maniera particolare. Ma naturalmente non rinunciavo ai miei progetti, e quando, dopo la realizzazione di quel film, mi appassionai alle letture dei testi di un antropologo peruviano che nei suoi libri si occupava di quei fenomeni che noi occidentali abbiamo ciecamente definito “parapsicologici”, e di argomenti analoghi, quel desiderio di realizzare qualcosa in Messico, si risvegliò… All’inizio certo, le premesse non furono troppo incoraggianti, dato che qualsiasi tentativo di mettersi in contatto con lo scrittore peruviano, che da qualche tempo ormai risiedeva in quel di Los Angeles, risultò infruttuoso, nonostante i nostri collaboratori in California avessero buoni agganci. Poi, tramite vari mediatori, un giorno finalmente potei concordare un colloquio telefonico con l’antropologo peruviano, nel corso del quale stabilimmo che ci saremo incontrati a Los Angeles, e che da lì avremo intrapreso un lungo viaggio, quasi un inizio di sopralluoghi, per vedere cosa ne sarebbe potuto nascere. Sarebbe stato quindi il Messico a decidere se quel progetto – sì, ma poi quale progetto? – sarebbe diventato un film oppure no. Posso anticipare che decise di no. Quando giunsi a Los Angeles, accompagnato dal Cesarone, dall’attore Silvio Barone – che avrebbe dovuto interpretare la mia persona in quel film ancora senza trama, ma che a grandi linee prevedeva come personaggio principale proprio il sottoscritto – e da Katherine – la fidanzata americana di Barone che ci stava aspettando lì all’aeroporto e cui forse avrei potuto far interpretare qualche parte nel film, giacché anche lei era un’attrice, e per giunta molto brava – ci recammo subito all’hotel dove l’antropologo ci aveva dato appuntamento e dove si svolse un’improvvisata conferenza stampa. Alla conferenza l’antropologo non partecipò, e dopo un po’ ci fu comunicato che ci aspettava a Calexico, sul confine con il Messico, scusandosi per l’imprevisto. Alla fine della serata, Cesarone, prima di ritirarsi nella sua camera, mi bussò alla porta, comunicandomi che al nostro arrivo all’hotel, nel trambusto generale di fotografi e curiosi che circondavano l’automobile che ci aveva lasciati davanti all’entrata, aveva ritrovato una busta incastrata nel tergicristallo della macchina che naturalmente raccolse e aprì, trovando all’interno uno strano bigliettino. Me lo mostrò. Una calligrafia incerta, si rivolgeva in inglese al “regista italiano” con parole ferme e perentorie: “Ti invitiamo a diffidare dall’antropologo peruviano, perché è un approfittatore che lucra sulle conoscenze ataviche dei nostri popoli che nessuno conosce meglio di Noi, ragion per cui, se proprio sei interessato a realizzare questo film, non devi fare altro che lasciare quell’impostore e metterti in contatto con Noi… ”. Pensai naturalmente a uno scherzo, rassicurai un po’ Cesarone che probabilmente non gli passava neppure per l’anticamera del cervello di spaventarsi per questi scherzi, poiché da buon comunista e materialista qual era, non credeva in nient’altro che nella propria pancia, e lo congedai. Il giorno seguente, ancora con il jet-lag a disturbarci non poco il nostro personale orologio biologico, partimmo da Los Angeles con una macchina a noleggio che Katherine si incaricò di guidare, facendoci uscire non senza fatica da quel mostro tentacolare che è la metropoli losangelina. Prima della partenza dal nostro hotel però, proprio Katherine mi fece notare un piccolo falchetto, appollaiato sopra all’asta di una bandiera del nostro hotel, che proprio in quel momento mi stava fissando, e che a suo dire la “seguiva” da quando era venuta a prenderci all’aeroporto. – Ma va là – le risposi bonariamente io, anche se pensai che fosse abbastanza strano che un falchetto svolazzasse per Los Angeles apparentemente a suo agio. Il resto del viaggio si svolse abbastanza serenamente, grazie anche alla perizia della nostra autista, che oltre ad essere una brava attrice e una donna affascinante come poche, si rivelò un’attenta guidatrice. Quando giungemmo a Calexico, una piccola cittadina di frontiera senza troppe pretese, ci dirigemmo immediatamente all’hotel in cui l’antropologo peruviano ci aveva dato appuntamento. Lo trovammo lì nella hall, intento a guardare la televisione in compagnia di due “collaboratrici” nordamericane che avevano tutte e due l’aria più da vestali che da segretarie o assistenti, tutte e due comunque molto attraenti. Il “maestro”, così lo chiamavano le due donne, un uomo basso e tarchiato, dalla pelle olivastra bruciata dal sole e vestito con una tunica completamente bianca, ci invitò a sederci, chiese che fosse spenta la tele, e ci offrì gentilmente da bere. La piccola riunione si svolse in un clima di allegria e rilassatezza, cosicché ci vollero pochi minuti per metterci tutti d’accordo nell’iniziare questo viaggio l’indomani mattina. Il tragitto e i luoghi che avremo visto, si sarebbero scelti in un secondo momento: avremo lasciato al caso una buona fetta di “scelta” sul nostro destino. Il mattino seguente, dopo una veloce colazione al ristorante dell’hotel, partimmo in due macchine, una per l’antropologo e le due vestali, una per il mio gruppo, costeggiando il confine con gli stati Uniti sulla sinistra, e l’immenso deserto dell’Altar sulla destra, deserto costellato da grandiosi cactus che si estendono all’infinito. Giunti alla cittadina di Sonoyta, la strada man mano che avanzava, si allontanava sempre più dal confine per puntare, sempre più decisa, verso sud. Proprio in quel momento lo sentii: il grande calore del sud, il cuocersi di milioni e milioni di tortillas. Lo sconfinato e vecchio Messico era lì, che si stendeva ai nostri piedi, pronto per essere calpestato, percorso, amato o odiato. A pomeriggio inoltrato, dopo che a tutti era toccato il proprio turno di guida, ci fermammo in un motel lungo la federale 15, la strada che da Nogales, in Arizona, arriva a Hermosillo e poi a Guaymas, di fronte al Mar de Cortés. Dopo una veloce doccia ci ritrovammo tutti a merendar al piccolo ristorante del motel, e così potei scambiare alcune battute con quell’uomo così gioviale e sereno. Si dimostrò da subito estremamente intelligente e attento, dai modi certamente misurati e ponderati, oltre che sinceramente gentile. Le due vestali non lo mollavano un minuto, attente a ogni parola detta da me o da lui, e nelle poche occasioni in cui intervenivano, iniziavano la propria osservazione rivolgendosi a lui e chiamandolo “maestro”. Finito di banchettare e di chiacchierare, il “maestro” e le due vestali si scusarono e si ritirarono nella propria camera, mentre io e Cesarone, andammo a fare due passi dietro il motel, in un semi-desertico spiazzo cosparso di erbacce, arbusti secchi e gli immancabili cactus. Dopo un po’ di cammino, Cesarone si fermò, guardò verso le luci dell’autostrada, e sorridendo mi squadrò. – Hai visto che tipo, Leo? – mi chiese riferendosi all’antropologo. – Chissà cosa avranno da fare di tanto urgente quei tre insieme nella loro camera? – Be’ sì, è un po’ strano, però ha tutta l’aria di una brava persona il “maestro” e poi… sono fatti loro no?… beato lui direi – dissi scoppiando in una risata che si estese per tutta la radura. – Già beato lui, ma certo che potrebbe anche darcene una dico io, magari quella più brutta – disse sghignazzando Cesarone. – Che sarebbe? – replicai io, mentre lui ridacchiava e pigramente si dirigeva di nuovo verso il motel. Poco prima di arrivare al motel, rividi il falchetto che Katherine mi aveva fatto notare a Los Angeles, e fui certo che era lui, perché come a Los Angeles mi stava fissando, chiedendosi forse cosa mai ci facessi lì. Avvicinandomi a lui, si alzò in volo e sparì, mentre io pensavo: “Ma guarda un po’ che combinazione, lo stesso falchetto di Los Angeles”. Quando giungemmo al motel, trovammo Silvio e Katherine che abbracciati lasciavano passare distrattamente il tempo davanti ai loro occhi. Li salutammo e ci dirigemmo verso il ristorante, dove bevemmo un po’ di caffè – un po’ tanto poiché anche in Messico, come negli states del resto, il caffè è una brodaglia allungata con tanta acqua calda – e dei pani dolci smisurati, che loro chiamano conchas. Poi ognuno se ne andò nella propria stanza. Mi misi un po’ scrivere le mie impressioni sul viaggio, ma poi, vinto dalla stanchezza, mi coricai. Al mattino seguente, dopo essermi alzato dal letto, notai una strana busta in mezzo alla stanza, una busta che certamente non era mia. Già, ma di chi era allora? La presi e incuriosito la aprii. Dentro c’era un foglio, in cui una calligrafia incerta, la stessa che avevo letto in quel foglio ritrovato da Cesarone sul parabrezza della macchina a Los Angeles, rivolgendosi a me, ci consigliava di lasciare “il cialtrone” così era definito il “maestro” questa volta. Dopo essermi vestito, ed essere andato a fare colazione, partimmo nuovamente verso sud, e qui rivelai ai miei tre compagni di viaggio ciò che avevo ritrovato. Tutti i tre accolsero sarcasticamente le mie parole, in fondo mi conoscevano abbastanza bene e sapevano perfettamente quanto mi piacesse ordire scherzi in ogni occasione. Io invece pensai che fosse stato Cesarone che affetto dal mio stesso “morbo”, gli piaceva ravvivare i nostri viaggi con trovate simili. Ciò che non si spiegava era come fosse entrato il Cesarone nella mia stanza, ma lui era l’uomo dalle mille risorse “per cui in qualche modo avrà pure fatto no?” pensai io ridacchiando, mentre il mio sguardo spaziava per tutto l’incredibile panorama che ci accompagnava fuori dal finestrino dell’auto. Il viaggio fino a Los Mochis fu abbastanza tranquillo, a parte la piccola suspense che “pensò” di inventarsi Cesarone, non facendo rifornimento quando di distributori ce n’erano a dozzine – cioè nei dintorni di Hermosillo – e ritrovandosi all’improvviso in riserva lungo una strada su cui avevamo deviato dalla statale, completamente priva di distributori. Ci salvò la decisione di tornare indietro e riprendere la strada principale verso sud, dove poco prima del confine con il Sinaloa, potemmo finalmente riempire il nostro serbatoio. Sorprendente fu anche il fatto che la macchina con l’antropologo e le due vestali, ci raggiunse dopo pochi minuti, dato che lungo quella strada di montagna nella quale avevamo rischiato di rimanere a secco, complice la nostra andatura lenta per non sprecare benzina, ci eravamo persi di vista. Comunque sia, con le prime ombre del tramonto, giungemmo a Los Mochis, cittadina dell’entroterra sinaolense, famosa in tutto il Messico per essere la stazione di partenza di un’ancora più famoso treno, ma questo, almeno noi del nostro gruppo, lo scoprimmo solo dopo. Andammo a cenare in un accogliente ristorantino a conduzione famigliare, una cenaduria, come imparai successivamente si chiamino questo tipo di ristoranti, e tra una chiacchiera e una risata si fece davvero tardi, e considerando che eravamo in viaggio dalla mattina, decidemmo di andare subito a riposare le nostre membra all’hotel che avevamo trovato quasi in centro città, un posto tranquillo e discreto. Camminando lungo la stradina che dal ristorante portava all’hotel, un’improvvisa folata di vento alzò un piccolo mucchio di cartacce, una delle quali mi volò letteralmente in faccia. Feci per gettare quella cartaccia, dopo essermela tolta dal viso, ma all’improvviso la mia attenzione fu catturata da ciò che annunciava quel foglietto pubblicitario. Era un annuncio del famoso “Tren Escenico” il treno che lungo uno spettacolare percorso caratterizzato da viste mozzafiato su cañones e gole profonde, collega il Pacifico, da cui Los Mochis dista solo poco più di una ventina di chilometri, a Chihuahua, posta praticamente al centro degli altopiani settentrionali del Messico. Chiesi immediatamente lumi all’antropologo che brevemente mi raccontò la storia di questa utopistica opera di ingegneria ferroviaria, sottolineando l’aspetto artisticamente stimolante di un eventuale viaggio su quel treno. Decisi naturalmente, seduta stante, che l’indomani avrei incaricato il buon Cesarone di procurarci i biglietti, ma fu quello il mio ultimo lucido pensiero di quella lunga giornata visto che il sonno mi stava velocemente annebbiando cervello e vista. Giunti all’hotel, ci chiudemmo ognuno nelle proprie fresche e confortevoli stanze, mentre fuori il calore che aveva oppresso per tutto il giorno Los Mochis, si attenuava leggermente. Questa volta io e Cesarone dormimmo nella stessa stanza, perché stranamente l’hotel era pieno. Ricordo che andai al bagno per primo, espletando di seguito i miei bisogni fisici, facendomi una veloce doccia e lavandomi i denti. Fu poi la volta di Cesarone che dopo un quarto d’ora, mentre io già avevo preso sonno, se ne uscì dal bagno tenendo in mano un pezzo di carta igienica. Lo vidi perché la luce intensa del bagno mi risvegliò parzialmente dal torpore in cui mi ero abbandonato, poi la sua voce fece il resto. – Leo, svegliati, guarda cosa ho trovato qui – mi disse agitandomi davanti agli occhi quel pezzo di carta. – Per Dio, Cesarone, cosa diamine c’è? – chiesi un po’ infastidito, mentre lui accendeva la luce sul comò. – Guarda qui Leo… un altro di quei messaggi… Dopo essermi strofinato gli occhi, ed essermi tirato su, gli presi di mano la carta igienica, e gli diedi un’occhiata. La calligrafia era sempre la stessa, e anche la lingua utilizzata, l’inglese, solo che questa volta le minacce erano più dirette, e meno leggere: “Molla l’approfittatore, mollalo, altrimenti una terribile maledizione cadrà sulle vostre teste… solo Noi siamo in grado di darti ciò che cerchi… mollalo”. – Ah, ah… – riuscì a dire io, girandomi dall’altra parte, in preda a un attacco d’ira che solo il gran sonno riusciva parzialmente a nascondere. – Ma guarda che non è uno scherzo Leo… te lo giuro… quel messaggio l’ho trovava dentro a un rotolo di carta igienica che prima era chiuso… l’hai aperto tu stesso, non ricordi? – disse un po’ alterato il buon Cesarone. – Ora basta Cesarone… lasciami in pace che voglio dormire, e non russare eh? – dissi. Dopo di che spensi la luce, e il sonno si sfilacciò sotto i miei occhi, appesantendo in pochi secondi le palpebre, e portandomi in un istante tra le braccia di Morfeo. Il mattino seguente, quando mi risvegliai, mi ero quasi dimenticato della faccenda, tanto pesantemente avevo dormito, ma quando vidi Cesarone che ancora dormiva nel suo letto, mi rivenne in mente l’accaduto, e ripetei sarcasticamente quel “ah, ah” che mi pareva il commento più adatto a quella specie di scherzo che Cesarone mi aveva propinato. Vestendomi mi venne anche il dubbio che Cesarone non mi avrebbe mai fatto uno scherzo così poco intelligente, “quest’uomo è capace di beffe ben più raffinate e ingegnose” pensai. “Probabilmente” mi dissi “anche lui era molto stanco ieri sera, per cui non gli sarà riuscito di ordire qualcosa di degno della sua fama.” Lui invece, dopo essersi svegliato ed essere andato al bagno, ritornò apparentemente tranquillo a rivestirsi ai piedi del suo letto, e dopo qualche istante in cui evidentemente cercò pian piano di risvegliarsi, se ne uscì dicendo: – Aaah, ora ho capito, il messaggio nella carta igienica è opera tua, non è vero? – Guarda Cesarone… non so di che cavolo stai parlando…, io non ho scritto assolutamente nessun messaggio né tanto meno l’ho messo dentro alla carta igienica… Dai ammettilo è un tuo scherzo e t’è riuscito male, chiusa lì. Cesarone replicò qualcosa del tipo che magari lo scherzo era riuscito male a me, giacché lui non aveva fatto nulla di tutto ciò, ma comunque non mi dette tempo di rispondergli, perché dopo una grassa risata, di quelle che gli erano tipiche, uscì dalla stanza precipitandosi letteralmente a fare colazione al piano inferiore. Durante la giornata la vicenda venne fuori un paio di volte anche con Silvio e Katherine, ormai intrigati nel voler scoprire a ogni costo chi era l’artefice di quegli scherzi, l’organizzazione e i discorsi sul viaggio che l’indomani mattina avremo incominciato, invece ci fecero in fretta dimenticare il tutto. L’antropologo e le due vestali, dopo essersi svegliati molto tardi e aver pranzato cordialmente in nostra compagnia invece, non si fecero vedere per tutta la giornata, finché in tarda serata, uscirono dalla loro stanza, e vennero a discutere – anzi il maestro venne a discutere, visto che le due vestali non aprirono quasi bocca – gli ultimi dettagli del viaggio. All’alba del giorno dopo, eravamo già tutti in piedi pronti per raggiungere in taxi la stazione, posta alla periferia della città, per cui dovemmo svegliarci circa alle quattro del mattino. A leggere le guide sembrava fosse assolutamente necessario essere in stazione almeno un’ora prima della partenza del treno, anche se si era già muniti di biglietto come lo eravamo noi.
In realtà, quando giungemmo alla stazione, c’era solo un altro viaggiatore, un tedesco che sicuramente come noi, aveva dato troppo retta alle guide e che come noi, trovò la stazione inesorabilmente chiusa. Da dietro le vetrate si riusciva a intravedere, anche se a fatica a causa del buio, il treno, che sembrava una carrozza regale, soprattutto se raffrontato con gli altri treni che girano per il Messico. Alle cinque e mezzo c’erano solo tre passeggeri oltre a noi, e già Silvio, ma soprattutto la sua fidanzata Katherine, incominciava a brontolare maledicendo le guide e l’agenzia di viaggio che ci avevano venduto i biglietti. Dopo qualche minuto arrivò la massa dei passeggeri, in maggioranza turisti stranieri, ma anche piccoli gruppetti di messicani, prevalentemente famiglie, l’ultima della quale salì in treno quasi al volo. Poco prima delle sette, tra la pianura brulla e piatta dell’entroterra sinaolense, sorse rapidamente il sole che esplose in un’alba meravigliosa, disegnando i contorni soavi delle montagne che si vedevano all’orizzonte, mentre guardando il cielo, si riusciva a quasi a distinguere la linea tra notte che terminava e giorno che iniziava. Il tragitto lungo il quale il treno si mosse per le prime due ore di viaggio, risultò abbastanza consueto, almeno considerato il contesto montano in cui, quasi da subito, tale percorso si sviluppava. Poi, dopo un altro paio di ore, e dopo che il treno si era arrampicato tenacemente lungo i primi pendii della Sierra Tarahumara, il primo rallentamento: tutti corremmo sulle pedane esterne poste all’inizio e alla fine di ogni carrozza – praticamente delle piccole terrazze – per ammirare il primo cañon, che già ci sembrava impressionante, effetto amplificato dal fatto che il ponte su cui passava il treno, oltre ad essere letteralmente sospeso nel vuoto a qualche centinaio di metri dal letto del río, era largo solo lo spazio necessario a far scorrere le due ruote, e la vista era diretta sul letto del torrente stesso, cioè senza nessun tipo di pavimentazione tra una traversina e l’altra. Eravamo tutti eccitatissimi nell’ammirare questo spettacolo del creato: sembrava quasi che quella natura, la natura che rigogliosa esplodeva in tutta la sua maestosità in quella regione così particolare, fosse legata indissolubilmente al treno, l’unico mezzo di costruzione umana cui fosse consentito, in un certo qual modo, di violarla, lasciando però tutto o quasi come da secoli è, e come sempre si spera sarà. Anche il cielo qui era differente e per certi versi spettacolare, non solo per il particolare colore, di un blu-cobalto che faceva quasi male gli occhi a guardarlo, ma anche perché, sporgendosi dalle pedane del treno, si aveva quasi la sensazione di toccarlo, tanto sembra vicino. L’antropologo peruviano, sempre tallonato da vicino dalle due vestali, osservando le nostre reazioni alla meraviglia della natura, sorrideva sornione, senza dire una parola. Tornati in cabina, e dopo esserci un po’ ripresi dall’incanto appena finito di osservare, ci recammo nella carrozza ristorante per mettere qualcosa di solido e di liquido nello stomaco. A un certo punto il lieve chiacchierio dei passeggeri del treno si placcò come per magia, i bicchieri velocemente si posarono o si svuotarono, e i piatti di svariati tipi di cibarie furono frettolosamente lasciati lì, mezzi vuoti e mezzi pieni.
Mancava poco per arrivare al Divisadero, il punto da dove si può ammirare per intero la Barranca del Cobre, un insieme di venti cañones, dove il treno si sarebbe fermato un quarto d’ora per permettere a tutti di goderne la vista.
Appena scesi, tutti si precipitarono istintivamente verso l’orlo del burrone, da dove si poteva ammirare l’immensità del vuoto.
Lo spettacolo era indescrivibile: da qualunque parte si guardava si vedeva questo incrociarsi di cañones, di vette levigate da millenni di venti, di cielo blu-cobalto che sembrava lì, davanti ai propri occhi, a portata di mano.

(fine prima parte – continua…)

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