México Sur Real – In viaggio verso Tulum (terza parte)

(seconda parte)

Eravamo tutti e quattro sconcertati. Ci ritrovavamo da soli, senza una guida esperta, conoscendo a malapena qualche parola e qualche espressione in spagnolo, che tra l’altro avevamo imparato pochi giorni prima, e senza avere un’idea di come e per dove proseguire, nella più grande metropoli del mondo, a immaginare un film di cui ancora non conoscevamo la trama né la sceneggiatura. E soprattutto eravamo perseguitati da dei pazzi fanatici che chissà come sapevano sempre come e dove trovarci, asfissiandoci con le loro velate minacce, e da un falchetto dallo sguardo impenetrabile che in qualche modo doveva essere legato a “loro”. Dovevamo decidere cosa fare. Durante la discussione che affrontammo subito dopo aver scoperto della fuga dell’antropologo, esposi i fatti come si erano succeduti, e le mie idee sul possibile proseguimento del viaggio e sulla realizzazione del film. Ascoltai anche le idee e perché no, i dubbi di tutti e tre i miei compagni di sventura, e alla fine arrivammo alla conclusione che dovevamo proseguire il viaggio. Ci prefissammo perfino una mèta, così da decidere lì sul posto, su quale trama avremmo girato il film, e soprattutto se l’avremmo girato o no. Questa mèta doveva essere Tulum – e in effetti, lo fu – un gruppo di rovine maya abbastanza particolari – che io chissà perché mi ostinavo a chiamare Tulun – non tanto per l’imponenza delle costruzioni in esso contenute, quanto per la particolare posizione, cioè a ridosso di una spiaggia orlata di palme e lambita da acque turchesi, a poco più di un centinaio di chilometri a sud di Cancún. Prima però, decidemmo che nei giorni successivi saremmo andati a vedere alcuni siti particolarmente interessanti nelle vicinanze di Città del Messico. Scegliemmo due località di cui avevamo discusso nei giorni precedenti con l’antropologo peruviano, ossia Teotihuacán, la misteriosa città pre-azteca a cinquanta chilometri dalla capitale messicana, e Tepoztlán, la cittadina dove secondo la leggenda, nacque il potente dio serpente degli aztechi, Quetzacóatl. In quanto ai nostri persecutori, pensammo che ora, dato che il soggetto del loro astio era svanito, ci avrebbero forse lasciato in pace. Purtroppo non fu così. A Teotihuacán ci recammo dopo due giorni di soggiorno nella capitale messicana, due giorni in cui visitammo il centro, vedendo lo Zócalo, ossia la grandiosa piazza centrale, il Palacio Nacional, con gli spettacolari murales di Diego Rivera da far a imponente contorno, le rovine del Templo Mayor, la Catedral Metropolitana, e il celeberrimo centro artistico di Bellas Artes, che funge anche da straordinaria sala per concerti. Quando arrivammo a Teotihuacán, il cielo mattutino era parzialmente coperto dalle nubi, ma ciò non ci impedì di apprezzare la suggestiva scenografia che si presentava ai nostri occhi, nonostante la presenza dei turisti che come ogni giorno qui, arrivavano in massa durante la mattinata – proprio come noi – e si disperdevano durante il giorno per tutto l’ampio perimetro della zona archeologica. La Pirámide de la Luna, e ancor di più la Pirámide del Sol, davano l’impressione di esser capitati sul grandioso set di un qualche kolossal storico non ancora realizzato, e in generale l’intera ambientazione favoriva questa impressione, accentuata anche dal successivo diradarsi delle nuvole, e dal conseguente manifestarsi di un feroce sole. Tutto però era straordinariamente vero, anche se i quasi duemila anni di esistenza, sembravano più un segno di silente decadenza, che un inno all’esistenza, che a ogni modo perdurava. Anche a Tepoztlán, trovammo uno scenario ideale per un kolossal, e anche se il tutto risultava essere forse meno maestoso di Teotihuacán, comunque ugualmente spettacolare. La particolarità del luogo – in realtà poco più grande di un paesino – che notammo con maggior interesse o forse solo con maggior curiosità, era il fiero orgoglio verso le antiche tradizioni nahua – ossia la cultura da cui discendevano anche gli aztechi – di cui la comunità locale fa sfoggio, tanto che sentimmo più volte, durante quel breve soggiorno in paese, parlare una lingua per noi incomprensibile, il náhuatl. Sul Tepozteco, la piramide che sorge abbarbicata su una rupe che sovrasta la cittadina, “loro” si rifecero vivi, anche questa volta tramite un messaggio dentro una busta che ritrovai per puro caso tra i sassi e i cespugli – che scostai per cercare la penna con cui prendevo gli appunti, rotolatami fuori dalla giacca e caduta proprio sopra a quei cespugli – del sentiero che porta in cima alla rupe. Questa volta il messaggio si compiaceva dell’abbandono “dell’impostore” e si augurava che ora, li avrei contattati per girare finalmente ‘sto cavolo di film, solo che, anche questa volta, quella ormai odiosa calligrafia, non diceva come e dove avrei potuto mettermi in contatto, anche se naturalmente non ci pensavo nemmeno a fare una cosa del genere, figuriamoci. Non sapevamo davvero che fare, anche se alla fine decidemmo ugualmente di continuare fino alla fine – o fino al momento che ci sarebbe stato concesso – quel viaggio sempre più surreale. Optammo però, per ridurre i tempi – e quindi i luoghi da visitare –, di saltare città relativamente vicine o quasi a Città del Messico – quindi niente Puebla, Veracruz o Cuernavaca – ed escludendo anche il sud – cioè Guerrero, con le sempre meravigliose Taxco e Acapulco, Oaxaca e Chiapas – puntando decisamente verso est, verso cioè il paludoso Tabasco, e la città di Villahermosa, che raggiungemmo in aereo, dopo qualche giorno dai fatti del Tepozteco. Così, dopo un breve volo da Città del Messico, atterrammo fiduciosi a Villahermosa, in trepidante attesa di ciò che ci avrebbe riservato quel viaggio. Quando mettemmo piede fuori dall’aeroporto della città che è anche capitale dello stato di Tabasco, capimmo senza mezzi termini cosa vuol dire la parola “caldo asfissiante”, tanto che anche il solo alzare un braccio per chiamare un taxi che ci portasse all’hotel in cui decidemmo di alloggiare per un paio di notti, risultava non troppo agevole, tanto era spietato il calore fuori da quell’aeroporto. Le nostre attività di ricerca, in quei giorni davvero incandescenti, si impantanarono in quel caldo vischioso, in quell’aria grave di umidità, e nella terra stessa di quei luoghi, che spesso si confondeva con l’acqua di fiumi, torrenti e lagune paludose, relegandoci al bar del nostro hotel a sorbirci succhi di frutta tropicali, che Silvio, durante tutto quel lungo viaggio, invece sostituiva con la fresca cerveza messicana che aveva imparato ad apprezzare, oltre ai vari tequila, mezcal e rum. Anche a Villahermosa vedemmo il nostro falchetto che ci aveva seguito fin laggiù, sempre accovacciato sopra a qualche cosa – questa volta sopra alla terrazza di una casa di fronte alla veranda dell’hotel in cui avevamo preso alloggio –, e sempre studiandomi con quello sguardo da scaltro rapace. Alla fine scegliemmo di fare le valigie e dirigerci con una macchina a noleggio lungo la costa di ponente dello Yucatán, passando per la città di Campeche, per un paio di rovine maya lì nelle vicinanze, e proseguendo per quella strada, raggiungere la capitale dello Yucatán, Mérida, per poi continuare in direzione est fino a Cancún, e da lì arrivare finalmente a Tulum, che io mi ostinavo a pronunciare Tulun. Arrivati a quel punto, eravamo tutti e quattro abbastanza provati da quell’esperienza, stanchi per tutti i chilometri percorsi, e soprattutto ancora sconcertati per tutta quella serie di strani avvenimenti che avevano letteralmente compromesso la buona riuscita di quel viaggio. In quanto a una concreta idea per quel film che sembrava sempre più irrealizzabile, a nessuno dei quattro era ancora venuta una buona idea, nonostante gli spunti per fare qualcosa di buono ci fossero in abbondanza. Cesarone sembrava uno dei meno colpiti da tutta quella situazione quasi irreale, questo probabilmente perché, da buon materialista, non credeva nel “lato spirituale” della vita, anche se proprio quegli avvenimenti stavano minando i suoi più profondi convincimenti in maniera irreparabile. Silvio invece, probabilmente a causa di tutti quegli accadimenti che come noi non capiva, si gettò a capofitto nell’alcool, da cui riemergeva grazie alla vicinanza della fidanzata, che gli stava sempre appresso, evitando così che incominciasse a bere sul serio. Katherine invece, con il suo portamento da guerriera vichinga che al suo passaggio faceva girare tutti gli uomini messicani e non solo, e con una sorta di preventiva freddezza nei confronti di tutto ciò che non fosse spiegabile, sembrava l’unica immune da quella sottile angoscia che quei fatti trasmettevano. A distanza di qualche mese da quel viaggio, mi confidò che invece era fortemente preoccupata per tutti noi, e che proprio in quei giorni, non vedeva l’ora di tornarsene sulla sponda sicura della vita – al di là Rio Grande quindi, cioè nel suo Texas, dove era nata e cresciuta – anche se il Messico la intrigava non poco, quasi fosse stato un amante un po’ perverso, che ti attira e ti viene da respingere allo stesso momento. Io infine, attendevo semplicemente l’epilogo di questo viaggio, curioso e allo stesso tempo un po’ spaventato per tutte quelle lettere e quei messaggi. Il viaggio comunque, come era previsto, continuò. Scivolammo veloci lungo le umide pianure del Campeche, e dopo averci lasciato alle spalle le pompe petrolifere che costeggiano l’orizzonte per un breve tratto anche in questo stato, entrammo in uno strano mondo fatto di commistioni tra elementi della cultura maya – e di conseguenza di quella più antica olmeca –, di un certo orgoglio creolo derivante da continui contatti che le culture caraibiche, e di una sorta d’influenza piratesca, giacché corsari e pirati hanno segnato per più di qualche secolo la storia di questi luoghi. Quando arrivammo a pomeriggio inoltrato a Campeche città, capitale naturalmente dell’omonimo stato, ci trovammo di fronte una città solare e tremendamente viva, caotica pur nelle sue dimensioni ridotte, e carica di rumori e odori, come ci si aspetterebbe da qualsiasi città portuale, per di più messicana. Pernottammo in un hotel a pochi isolato dal malecón, e a un solo isolato dal Parque Principal, la piazza principale di Campeche, che scoprimmo fin da subito, essere il luogo preferito dai campechanos per passeggiare prima del tramonto al riparo dalla calura diurna, per chiacchierare, per pensare, per far giocare i bambini o per farsi lucidare le scarpe, tutte attività quindi che rendono piacevoli la vita. Scoprimmo anche, proprio di fronte al lato nord di questa piazza, una delle peculiarità di Campeche, ossia i cosiddetti baluartes, i bastioni che assieme ai pochi tratti di mura di cinta ancora integri, servivano per difendere la città dagli attacchi dei pirati del Mar dei Caraibi, e più in là, dopo Plaza de la República, e dopo il Palacio de Gobierno, scoprimmo Plaza Moch-Cuouh, e con essa la storia di questa città che prima di divenire Campeche, si chiamava Ah Kin Pech, ed era abitata da una tribù maya governata dall’impavido Moch-Cuouh appunto, che ai tentativi di sbarco e relativa conquista degli spagnoli nella regione, seppe tener testa per oltre vent’anni. Solo dopo la morte del coraggioso condottiero maya, gli spagnoli si impadronirono a poco a poco del villaggio, facendolo divenire in poco tempo il porto principale dello Yucatán. Una tale scenografia, e una così ricca storia, meritavano senz’altro una permanenza in città di più di qualche giorno, considerando anche che non troppo lontano da Campeche sorgevano le rovine maya di Edzná, sito che senz’altro valeva la pena di visitare, dato che come tutte le rovine delle civiltà antiche, erano luoghi capaci di stimolare positivamente la creatività. E così, dopo tre giorni di esplorazioni nel tessuto urbano di Campeche, dedicammo un’intera giornata alla scoperta di quest’antica città maya, dell’ambiente che la circondava, e delle suggestioni che le sue rovine ci avrebbero regalato. A Edzná conoscemmo, tra i banchetti di souvenir posti all’ingresso del sito archeologico, una vecchietta che gestiva una di quelle bancarelle, anche se in realtà quel posto di vendita di paccottiglia pseudo archeologica era gestito da suo nipote, ma essendo quel giorno occupato in città, così la vecchietta ci disse, si era offerta di tenergliela lei per quella giornata. Scoprimmo che l’anziana donna era una curandera, una sorta di sacerdotessa sciamanica, nonché divinatrice maya, e ciò naturalmente mi incuriosì un sacco. Cercando di farmi intendere nella miglior maniera possibile – lei parlava a malapena lo spagnolo, come me d’altronde – le rivelai che stavo compiendo un viaggio per realizzare un lavoro, ma durante questa specie di spedizione, erano successi fatti strani, e volevo sapere da lei se poteva fare qualcosa per la nostra situazione. Ci diede appuntamento al tramonto, nello stesso posto dove stavamo parlando in quel momento. Ai miei tre compagni di viaggio tutto questo parve un po’ bizzarro, ma lo accettarono come un’altra delle mie stranezze. Poco prima del tramonto del sole dunque, eravamo lì, vicino all’entrata del sito di Edzná, ad aspettare un’amabile vecchietta che per pochi pesos ci avrebbe forse rivelato la fonte di tutte le nostre ansie. Le bancarelle stavano tutte chiudendo quando, osservando quella della vecchietta che era già chiusa fin dal nostro arrivo, mi venne il dubbio che forse, non l’avremmo più rivista, e con lei i nostri miserabili pesos. Invece, quando ormai il sole stava per tramontare, e oramai non era rimasto quasi più nessuno, comparve dalla selva una figura grottesca completa di tunica bianca e bastone ricurvo che ben presto si rivelò essere la sciamana. Ci salutò amabilmente tutti e quattro e poi ci lasciò intendere di aspettare ancora un po’, affinché il piazzale finalmente fosse sgombrato da ogni presenza umana che non fosse le nostre e la sua. Quando ciò si realizzò, la sciamana ci ordinò di raccogliere un bel po’ di legna secca da cui accese un fuoco, el sagrado fuego lo chiamò, che illuminò quell’angolo di selva che altrimenti sarebbe piombato nelle tenebre come tutto il resto. Poi recitò una nenia in una lingua antica, differente anche dal dialetto maya che usava normalmente per comunicare, una nenia che ci paralizzò e ci fece sentire piccoli e intimoriti verso quell’universo verde che ci circondava. A un certo punto, avemmo l’impressione, anche se sarebbe più giusto dire la certezza, che la curandera fosse entrata in uno stato di trance, perché la sua nenia era aumentata di volume e di velocità, e le parole che pronunciava, incespicavano e si scontravano tra di loro sempre più rapidamente. Quando finalmente la donna ritornò in sé, in uno spagnolo fluente che persino Cesarone capì, ci spiegò che quel lavoro che avevamo in mente di realizzare non si sarebbe mai concretizzato, che c’erano forze ancestrali che non permettevano a noi stranieri di penetrare nei misteri delle civiltà e dei luoghi con cui eravamo venuti superficialmente in contatto, e che il falchetto era il nostro protettore inviato da Hun-Camé e Vucub-Camé, signori di Xibalbá, il mondo delle tenebre dei maya, per permetterci di passare indenni questo viaggio. Poi, tutto a un tratto, il fuoco si smorzò, e la nonnetta ricominciò a esprimersi in un misto di gesti, spagnolo e il suo dialetto maya con cui si esprimeva comunemente. Dopo averla salutata, la vecchietta sparì tra la giungla, e noi sconsolati, salimmo in macchina con destinazione l’hotel di Campeche in cui ancora pernottavamo, dove decidemmo che nonostante tutto, quel viaggio si sarebbe almeno concluso secondo il nostro programma che avevamo pianificato a Città del Messico. Quando giunse il giorno di lasciare quei luoghi, eravamo tutti e quattro un po’ malinconici, sentimento che non derivava del tutto dal lasciarci indietro una città e una regione che ci aveva donato molto in termini di spunti per il nostro lavoro – a dispetto delle rivelazioni della vecchietta sciamana di Edzná – ma che forse era espressione del preludio di quel lento addio che cominciava a materializzarsi sotto le ruote della nostra macchina che man mano che macinava chilometri di strada in mezzo alla giungla, ci avvicinava sempre di più al nostro ritorno a casa. La tappa successiva fu Mérida, la capitale dello Yucatán fin dai tempi in cui si chiamava T’hó, cioè da molto prima dell’arrivo degli spagnoli, e oggi come ieri, residenza della borghesia yucateca, cui si è affiancata una consistente presenza di persone appartenenti a ceti più modesti che negli ultimi decenni sono emigrate dalle campagne circostanti, allontanati dai ricchi hacendados con le buone o con le cattive dalle loro terre, e in cerca possibilmente di un miglior tenore di vita, che quasi in nessun caso hanno poi raggiunto. Al nostro arrivo in città, in un tardo pomeriggio di fine autunno con la particolare luce del sole di questa stagione che ne metteva in risalto gli angoli nascosti e i volti della gente, notammo subito la grande confusione e purtroppo anche la sporcizia del centro storico, usato da tutti come una grande pattumiera comune, giacché era “usanza collettiva” quella di gettare indiscriminatamente ogni genere di rifiuti per strada. Questa strana usanza comunque, non toglieva l’indubbio fascino che si poteva ritrovare ad esempio lungo il Paseo de Montejo, una lunga arteria che i meridanos, che l’avevano costruito, avevano immaginato simile in quanto a bellezza architettonica ai parigini Champs Elysées oppure nelle decine e decine di piazzette più o meno grandi dove ci si può sedere al tavolo di qualche bar a bersi una birra fresca e ascoltare le suadenti note di qualche complessino di marimba, come ad esempio avveniva nella piazza del Parque de Santa Lucía oppure ancora nella favolosa Plaza Grande, dove il grazioso parco è circondato, nel tipico stile architettonico messicano, da chiese, palazzi e caffè, e dove tutta la gente è solita incontrarsi per poi andare a cenare nei ristoranti lì vicino. A Mérida visitammo musei e cantinas, palazzi e plazas de toros, chiese e haciendas appena fuori città, con l’indolenza che sembra permeare la quotidianità degli abitanti di questa città, anche se ciò sembra vero solo agli occhi non troppo attenti di noi stranieri. E Mérida seppe anche regalarci spunti interessanti per quel film che a dispetto delle profezie della vecchia sciamana di Edzná, sembrò proprio qui prendere forma, anche se con fattezza ancora rudimentali. Di Mérida finimmo come al solito di innamorarcene, come succede per una qualsiasi delle magnifiche città messicane, quando ormai era giunto il momento di andarcene, e la nostalgia pian piano prendeva il posto degli spazi osservati fino a qualche ora prima, della luce del giorno della Plaza Grande, delle orchestrine di marimba che si incontrano un po’ dappertutto in città, degli sguardi rapidi e indaffarati dei meridanos e del magnifico sole che dà l’impressione di risplendere ogni giorno sopra il cielo di questa città. Ritornati sulla strada, puntammo decisi in direzione est, con mèta Chichén Itzá, uno dei siti maya più importanti dell’intera aerea di influenza di questa cultura, sicuramente il più importante e conosciuto dell’intero Yucatán. Quando giungemmo al sito, puntammo decisi verso la piramide che gli spagnoli hanno ribattezzato El Castillo, e che in realtà i maya o meglio il prodotto del mestizaje tra i maya e i toltechi, chiamarono piramide di Kukulcán, dove per l’ennesima volta, incisa non so come su una parete del piccolo tempio che si erge in cima alla piramide appunto, c’era incisa la solita frase in inglese che in cui “loro” si rallegravano dell’abbandono dell’impostore e della nostra decisione di continuare, invitandoci a contattarli. – Basta – dissi secco a Cesarone in cima alla piramide, e lo ripetei ancor più seccamente a Silvio e Katherine, quando scesi di nuovo ai piedi di quell’imponente piramide. – Che cosa succede? – mi chiese Silvio, conoscendo già la risposta. – Basta – gli ripetei – domani ce ne torniamo in Italia e non voglio più saperne nulla di questo film né del Messico – dissi esasperato, mentendo a me stesso. – Non vorrai dirmi che… – accennò Silvio, subendo subito la mia fredda interruzione. – Già, ho trovato un messaggio anche là in cima – gli dissi, indicando con la punta dell’indice destro il tempietto sulla sommità della piramide. – Non può essere – disse sconsolato Silvio, che all’istante si lanciò in una veloce scalata alla piramide. Dopo un lasso di tempo che mi parve eterno, Silvio ritornò giù e mi raggiunse ai piedi dell’albero sotto al quale mi ero rifugiato per ripararmi dal feroce sole che nel frattempo aveva incominciato a surriscaldare l’ambiente. – Leo scusami, ma guarda che francamente io non ho trovato nulla là sopra… ma sei proprio sicuro di aver visto qualcosa? – mi chiese guardandomi come se fossi diventato pazzo o qualcosa del genere. – Certo che l’ho visto, era il solito messaggio di questi pazzi fanatici che ci vogliono far impazzire, ed è inciso su una parete del tempietto là in cima – gli urlai io, attirando l’attenzione dei turisti che passeggiavano lì nelle vicinanze. – Se vuoi, ci andiamo insieme lì sopra, così te lo faccio vedere quel cazzo di messaggio – aggiunsi, contenendo questa volta l’ira. – Fammi strada – disse lui. Su in cima, nonostante mi mancasse il fiato per la faticosa salita, lo portai immediatamente davanti a quella parete, dove questa volta, non c’era più nulla. – Ma com’è possibile… ti giuro che prima c’era… – balbettai prima di sedermi frustrato e stanco sul nudo pavimento della cima della piramide. Dopo qualche minuto di inutile ricerca, alzai bandiera bianca, e senza dire una parola tornai giù da Cesarone e Katherine. Proseguimmo di controvoglia la visita al sito, finché stanchi ed esasperati per quella specie di maledizione che sembrava protrarsi all’infinito, prendemmo la macchina e puntando ancora verso est, ci dirigemmo decisi verso la nostra penultima tappa di quel nefasto viaggio: Valladolid. Certo, arrivare a Valladolid, dopo simili esperienze, e dopo aver visto la sporcizia di Mérida, fa uno strano effetto, come se le sue piccole dimensioni, la sua calma rispetto ai frastuoni di altre città messicane, la sua indolenza in ogni gesto, siano state messe lì apposta per far finalmente rilassare il viandante stanco che non chiede altro che di riposare. Non che non ci sia niente da vedere in questa piccola cittadina yucateca, ma sembra comunque che la miglior virtù che Valladolid possa offrire, sia questa sorta di sensazione, avvertita in particolar modo dagli stranieri, di essere una città immobile nel tempo, tranquilla e luminosa come solo le cittadine messicane sembrano essere, con tutta la sua vita concentrata attorno allo Zócalo con l’immancabile cattedrale e con il tipico andirivieni di gente che alle dieci di sera come per incanto, sparisce e lascia l’anima un po’ selvaggia della città, retaggio del mai dimenticato passato maya, padrona di piazze e vicoli. Purtroppo però, dopo un paio di giorni di soggiorno in questa cittadina, era giunto il momento di raggiungere la nostra ultima mèta, e con essa di mettere la parola fine a quel viaggio che ci aveva ormai segnati indelebilmente tutti. Lasciammo Valladolid, chiedendoci perché le precedenti tappe raggiunte non fossero state tutte così piacevoli come quella piccola cittadina e perché fosse già arrivato il momento di andarsene. Inoltre mi venne da pensare se Valladolid da sola, avesse fatto il miracolo di farmi continuare a lavorare in quel progetto, se cioè la traccia che mi aveva lasciato fosse finalmente quella giusta. La tappa successiva, Tulum, mi fece definitivamente capire che quel lavoro non l’avrei mai realizzato. Capitammo a Tulum in una giornata ventosa, ma ampiamente soleggiata, e per di più particolarmente calda, dopo aver preso alloggio in un motel da quattro soldi lungo la famosa Riviera Maya. Non so cosa ancora mi aspettassi da quella visita, forse un nuovo messaggio, forse finalmente l’ispirazione giusta, di certo non quello che invece successe o almeno non nei modi in cui successe. Poco prima di partire per Tulum infatti, stavamo tutti e quattro mangiando nel ristorantino all’aperto del motel in cui eravamo alloggiati, quando un signore dall’aria modesta si avvicinò al nostro tavolo chiedendoci se per caso stavamo andando a “Tulun”, e se fossi io il regista italiano. – Chi lo vuole sapere? – chiesi io, con un fare a metà tra l’astioso e l’impaurito. – Loro – mi rispose l’uomo consegnandomi una busta e dileguandosi subito dopo. Aperta la busta, potei leggere per l’ennesima volta tutta quella serie di velate minacce cui non riuscivo ancora ad abituarmi dopo tanto tempo, ma notai dietro al foglio qualcosa di forse ancora più strano. Trattenuta da una spilla, infatti, c’era un pezzettino di stoffa a quadretti che riconobbi immediatamente. Era un pezzo di un mio capello, uno che però non ricordavo se avevo portato con me in quel viaggio in Messico, un capello che mi ricordava qualcosa, qualcosa che mi era successo qualche anno prima, solo che sul momento non mi veniva in mente cosa. La cosa certa era che sarei andato comunque a Tulum, come poi feci, ma solo per portarci quel pezzettino di stoffa e il relativo capello – che dopo una veloce verifica in camera, non solo trovai, mancante proprio di quel pezzo, ma riuscii a ricostruirne la storia, che ebbe inizio proprio con l’acquisto di quel copricapo che mi era stato consigliato da un mio amico mago di Torino, il quale mi disse che mi sarebbe servito in un viaggio – per bruciarlo ai piedi di una piccola piramide maya. Dopo di che ritornati in motel, rifacemmo in fretta le valigie, e dopo aver raggiunto a tutta velocità l’aeroporto internazionale di Cancún, comprammo due biglietti aerei per gli stati Uniti – per Silvio e Katherine – e due per l’Italia – per me e Cesarone – e lasciammo per sempre il Messico e quell’insensato progetto.

Rientrati in Italia, e tornati alle nostre misere faccende quotidiane, io e Cesarone dimenticammo in fretta o facemmo finta di dimenticare, ciò che successe in quel viaggio. Non lo stesso si può dire per Silvio e Katherine, giacché l’attore italiano decise proprio di ritorno da quel viaggio, di darsi metodicamente all’alcoolismo, tanto che un paio d’anni dopo morì di cirrosi epatica, abbandonato anche dalla sua compagna, che lo seguì qualche mese più tardi a seguito del proprio suicidio. Io, a distanza di un anno, ricevetti una telefonata a casa di amici, in cui la stessa maledetta voce mi chiedeva di non abbandonare il progetto, di affidarsi a loro, e giù la stessa identica solfa di quei giorni, un anno prima. Esasperato, scrissi tutto d’un fiato un soggetto cinematografico sui fatti di quei giorni, poi pubblicato su Diario di un regista, e con quello, “loro” non ricomparvero più. A volte però, quando scorgo un falchetto volteggiare nell’aria, quando vedo una busta bianca senza mittente o quando mi giunge all’orecchio qualche notizia che parli del Messico, mi sembra di ritornare a quei giorni, e mi assale una strana ansia, come se avessi qualcosa in sospeso da completare…

 

Note:

La vicenda qui narrata, seppur rievocata dal sottoscritto attraverso nomi di personaggi inventati, è una storia, nella sua sostanza, realrmente accaduta, i cui protagonisti principali erano niente poco di meno che Federico Fellini e Carlos Castaneda. Per la stesura di questo capitolo, mi sono servito principalmente di tre fonti particolarmente illustri ed affidabili: la prima, che è anche quella che mi ha fatto scoprire questa storia “realmente” surreale, è il capitolo che Pino Cacucci dedica appunto a Federico Fellini nel suo “Un po’ per amore, un po’ per rabbia” pubblicato da Feltrinelli nell’aprile del 2008, mentre la seconda è il fumetto di Milo Manara intitolato “Viaggio a Tulum” pubblicato, almeno nella versione in mio possesso, nel novembre del 1994 da Edizioni Nuova Frontiera e scritto, come recita il sottotitolo del fumetto, su soggetto di Fellini. La terza fonte, è proprio il soggetto cinematografico, scritto e successivamente diretto appunto da Fellini e con la partecipazione di Marcello Mastroianni, nonché di un giovanissimo Alvaro Vitali, intitolato “Block-notes di un regista”, prodotto nel 1969 dalla N.B.C., in cui l’esasperazione per non essere riuscito a realizzare il film che Fellini voleva girare in Messico, si traduce in un esacerbante e a tratti onirica ricerca di soggetti e attori. Per la descrizione di luoghi e atmosfere non necessariamente corrispondenti a quella vicenda, mi sono invece basato sul mio precedente lavoro, di prossima improbabile ristampa, intitolato “Un foglio accartocciato”, pubblicato per la Pirati Edizioni nel marzo del 2009.

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