México Sur Real – In viaggio verso Tulum (seconda parte)

(seconda parte)

La Barranca mi aveva catturato a tal punto che quasi mi scordai che da lì a pochi minuti il treno sarebbe ripartito, e poiché il resto del nostro gruppo era già ritornato alla chetichella al treno, avrei dovuto sbrigarmi.
Velocemente mi avvicinai alle rotaie, anche se nel frattempo ne era arrivato un altro di treno, quello che proveniva da Chihuahua, e sinceramente non sapevo più quale fosse il mio.
Riuscì a riconoscerlo quando all’improvviso si mise in marcia, così da costringermi a corrergli dietro e salire al volo, tra gli incitamenti degli altri passeggeri, e le grida di Cesarone e Silvio che finalmente mi avevano ritrovato, dopo aver creduto, dato che non tornavo, di avermi smarrito. Quando giungemmo a Creel, un paesino di montagna posto sul tragitto della linea ferroviaria, il pomeriggio lentamente si stava stemperando in un infuocato tramonto. Scendemmo lì per la sosta, decidendo di passarci la notte e vedere il mattino successivo se valeva la pena spendere il resto del giorno a zonzo per quei posti, e quindi passare a Creel un’altra notte o prendere il treno all’indomani, che sarebbe arrivato in paese esattamente alla stessa ora in cui quel giorno eravamo arrivati. La notte fu molto fredda, anche perché il modesto alberghetto gestito da un fricchettone olandese la cui simpatia non figurava tra i suoi maggiori pregi, non era riscaldato, e questo tenendo in conto che le notti da queste parti erano in genere piuttosto fredde, data l’altura. Il giorno dopo, ci alzammo tutti molto presto, facemmo una veloce colazione nella cucina in comune del fricchettone, pagammo, gli lasciammo in custodia i bagagli, e quando il sole non era ancora alto in cielo, partimmo diretti al Complejo Ecoturistico Arareko, un ejido, cioè una terra comunitaria, appartenente alla comunità dei tarahumaras. –
I tarahumaras, che oggi vivono abbarbicati tra queste montagne, sono conosciuti come popolo saltatore o dai piedi leggeri per la loro straordinaria capacità di correre tra le rocce della Sierra e ancora oggi compiono un’estenuante gara di centosessanta chilometri attraverso l’accidentato suolo in cui vivono, calciando una piccola palla – mi raccontò affabilmente l’antropologo, aggiungendo che loro stessi si definiscono coloro che corrono veloci, ossia Rarámuri nella loro lingua. Quando entrammo dalla staccionata d’ingresso dell’ejido, il sole ormai scaldava le nostre membra ancora infreddolite, tanto che in pochi minuti ci ritrovammo tutti in maniche corte. Il paesaggio era a dir poco splendido: immensi pascoli, formazioni rocciose particolarissime, piccole comunità di tarahumaras in cui il tempo sembrava essersi fermato, e poi ancora cascate, grotte, laghi… Mi sembrò proprio che quegli indigeni avessero qui ritrovato l’equilibrio con la natura che secoli di fughe da “civilizzazioni” occidentali, avevano compromesso. Qualche piccolo particolare sembrò anche ispirarmi trame e ambientazioni per quel film che tanto desideravo girare, ma percepivo anche degli strani sentori che mi attraevano e mi respingevano allo stesso tempo. Il resto della “banda” era tranquilla, in particolare la “mia banda”, che giocava e saltava e si rincorreva tra quei luoghi come fossero stati bambini, solo il “maestro” e le due vestali apparivano appena un passo estranei a quell’atmosfera giocosa eppure così velatamente imperscrutabile. E proprio nella terra dei tarahumaras, vedemmo per l’ennesima volta quel falchetto che ci accompagnava da Los Angeles, questa volta appollaiato sopra a una staccionata, e anche questa volta era chiaro che stava fissando me. La cosa naturalmente mi inquietò, ma non volli rovinare l’atmosfera giocosa che si era creata, e così tenni l’episodio per me, anche se fui sicuro che anche Katherine si accorse di lui. Dopo quella lunga mattinata, e quasi tutto il pomeriggio di quello stesso giorno trascorsi nelle terre dei tarahumaras, decidemmo quindi di passare a prenderci i bagagli, e di proseguire il viaggio verso Chihuahua. Quella stessa sera, dopo qualche ora di treno e dopo aver osservato i meravigliosi colori del tramonto scintillare e spegnersi tra le montagne della Sierra, giungemmo stanchi ma felici a Chihuahua, la città che durante la revolución, rivestì un ruolo di primo piano per uomini come Pancho Villa e i suoi fedelissimi. Alloggiammo in un hotel del centro, un hotel ampio e decadente, una sorta di monumento proprio a quella rivoluzione tradita mi immaginai, pensiero probabilmente indotto dalla stanchezza. Anche qui l’hotel era praticamente pieno quando giungemmo noi, cosicché anche questa volta Cesarone prese alloggio da me. Dopo aver parzialmente svuotato i bagagli, ed esserci fatti a turno una veloce doccia, ci coricammo finalmente ognuno nel proprio letto, sennonché il telefono incominciò a suonare. – Chi sarà mai? – chiesi sfinito a Cesarone, che fecce spallucce e mi rispose semplicemente: – Sarà Silvio, prova a rispondere no? Così feci, ma la voce che si espresse in inglese non era assolutamente quella di Silvio, e neanche quella di Cesarone, che oltre a non sapere l’inglese, in quel momento era lì con me, e quindi come minimo sarebbe dovuto essere un suo eventuale complice a propugnarmi quello scherzo… La voce diceva le stesse cose dei precedenti messaggi misteriosi che ci avevano accompagnato dalla nostra entrata in Messico fino a lì, ma questa volta, a replica delle proteste che esternai, chiedendo che la smettessero con gli scherzi, la voce chiese: – Non ci credi vero? Ma se anche le tende sanno che facciamo sul serio… – e riattaccò. Guardai le tende, e in quel momento anche Cesarone fece lo stesso, forse era riuscito anche lui a captare quelle parole fuoriuscire dalla cornetta del telefono. Le tende avevano incominciato a ondeggiare senza nessun apparente motivo, così da un momento all’altro. Controllammo più volte porte e finestre, eventuali aperture che potessero creare piccoli spifferi, controllammo addirittura che tutti i cassetti e tutte le portiere dell’armadio fossero chiuse bene, come se da dentro un armadio potesse generarsi una corrente d’aria in grado di spostare le tende, ma nulla, quell’ondeggiare di teli era semplicemente inspiegabile, come fu inspiegabile dopo pochi minuti, il cessare improvviso di quello strano fenomeno. L’indomani, appena incontrammo Silvio e Katherine, gli raccontammo subito l’accaduto, ma nonostante la nostra ostentata serietà nel descrivere quello che era successo, e nonostante ormai anche il buon vecchio Cesarone non credesse più in un mio scherzo – e io non avessi più sospetti verso di lui – i due fidanzatini si misero a ridere smodatamente, non credendo neanche a una parola di quello che gli narrammo. – Ci vediamo al ristorante per la colazione – ci disse Silvio allontanandosi abbracciato alla sua amata che come lui ancora ridacchiava per lo “scherzo”, mentre noi li osservavamo a bocca aperta come due stoccafissi. Il resto della giornata la passammo per Chihuahua assieme a tutta l’allegra brigata, a parte noi due che ancora un po’ sotto shock per lo “scherzo”, non riuscivamo a goderci la città come invece meritava. Verso il tardo pomeriggio poi, andammo a visitare il Museo de la Revolución, ricavato dalla casa di campagna in cui visse fino alla morte, e cioè fino al 1981, Luz Corral, una delle innumerevoli mogli di Pancho Villa, da cui il nome della casa deriva, ossia Quinta Luz. Lì, osservando le foto di Pancho Villa, e i reperti della rivoluzione, che curiosamente sono affidate all’esercito messicano pur essendo noto a tutti che Pancho Villa e i suoi in effetti, combatterono contro i federales dell’esercito, ci siamo un po’ rilassati, allontanando per qualche ora quell’episodio surreale che ci capitò di condividere. L’antropologo come sempre, sembrava rilassato e a suo agio, praticamente ignaro del fatto che qualcuno stesse facendo di tutto per screditarlo ai nostri occhi, mentre le due vestali sembravano sempre stargli troppo addosso, cercando quasi di proteggere la reputazione del loro “maestro”, quasi avessero intuito qualcosa. Durante la nottata, quando tornammo in hotel dopo una grandiosa mangiata in un ristorante tipico della città, io e Cesarone discutemmo un bel po’ sulla faccenda, arrivando alla conclusione che non era ancora il caso di rivelare i fatti all’antropologo, in attesa di un’agognata sospensione definitiva di tali fenomeni. Quando, dopo alcuni giorni di permanenza in città, partimmo in direzione sud, tutto già sembrava propendere per questa soluzione, tanto che sia io che Cesarone, ricominciammo a organizzare burla come eravamo soliti fare prima di quella serie di episodi. Il paesaggio su cui viaggiavamo era quanto di più desiderabile per fungere da ispiratore per scenari cinematografici, visti gli immensi spazi desertici che si offrivano alla vista in ogni direzione, che si spingeva fino all’orizzonte, in un ripetersi infinito di cactus, arbusti, pietre e furtivi sguardi di chissà quali animali del deserto. Per un paio di giorni o poco più, viaggiammo attraverso questi scenari, fermandoci quando trovavamo qualcosa che sembrava essere interessante in funzione del film, che ne so, una casupola abbandonata, un río evaporato sotto i micidiali raggi solari della regione oppure quando si aveva fame o sonno, e allora ci fermavamo lungo la strada in motel o bettole, con la pretesa di ristorante. Nei pressi di Ceballos, nel Durango settentrionale, la nostra attenzione fu catturata dalle parole del “maestro” che dopo aver segnalato di fermarci, e dopo essere sceso dalla propria macchina, ci venne a dire che a una novantina di chilometri in direzione nord-est, uscendo dalla strada principale e seguendo una pista non asfaltata che si inoltra nel deserto, si incontrava quella che era conosciuta come Zona del Silencio, così chiamata perché addentrandosi nell’ancora remota regione, ogni onda radio, da quelle diffuse dai normali ripetitori di ogni stazione radiofonica, alle onde radio emesse dalle ricetrasmittenti, fino alla più sofisticata e tecnologica trasmissione di onde radio, come può essere quella che permette ai satelliti spaziali di trasmettere a terra, immancabilmente svaniva, come se una forza sconosciuta impedisse il propagarsi di tali onde. L’antropologo ci chiese se ci interessava andarla a vedere, sottolineando però che comunque era solo un altro pezzo di deserto, più o meno simile a quello che avevamo visto fino allora. Certo che volevamo vederlo quel pezzo di deserto, ma dovevamo necessariamente ingaggiare una guida, e fu proprio questo che non ci permise di vederla questa Zona del Silencio in quanto, una volta arrivati in paese, non trovammo nessuno disposto ad accompagnarci, con la motivazione, come ci risposero la maggior parte degli individui che contattammo, che nessuno voleva disturbare il “Grande Spirito” al quale evidentemente, la presenza di qualche güero, cioè di qualche viso pallido in quei posti, doveva davvero dare fastidio, soprattutto tenendo conto, come ci disse qualcuno, che loro indigenas, si recavano spesso nella zona senza nessuna conseguenza divina. Nelle ore e nei giorni successivi, proseguimmo sempre verso sud, e dopo essere definitivamente usciti dal Bolsón de Mapimí, il deserto dove si trovava la Zona del Silencio, dopo aver visto gran parte del Durango orientale, dopo aver costeggiato la Sierra de Zacatecas, e aver percorso l’intera valle del Río Juchipila, incominciammo a vedere in lontananza le luci dell’immensa Guadalajara. Poco prima però, circa dopo un’ora dall’essere transitati per Zacatecas, in un anonimo motel a un lato della strada, ci ricapitò un episodio simile a quelli avvenuti nei giorni precedenti. Questa volta il biglietto con le consuete avvertenze sul “rischio” di affidarsi all’antropologo peruviano lo ritrovai, appena entrato, sotto il cuscino del letto della mia modesta stanza che questa volta non divisi con Cesarone, ragion per cui, anche questa volta, non c’era alcun dubbio sull’estraneità di Cesarone. Feci comunque buon viso a cattivo gioco, e mi coricai a letto come se nulla fosse successo, anche se, nonostante la stanchezza per il viaggio, non riuscii a prendere sonno subito, girandomi e rigirandomi tra le lenzuola per una buona oretta… Quando, il mattino seguente, dopo un breve viaggio in macchina, arrivammo finalmente a Guadalajara, ci recammo immediatamente alla sede dell’agenzia di noleggio che ci aveva affitato le macchine, e dopo aver pagato gli extra, e aver ritirato i documenti, ci dirigemmo in taxi all’hotel che una delle due vestali aveva prenotato pochi minuti prima, per conto nostro. In hotel, quando restai solo con Cesarone, Silvio e Katherine, mi decisi a raccontare finalmente ciò che era successo la sera prima, trovando piena comprensione da parte di Cesarone, mentre la coppia di attori e fidanzati, anche questa volta si mise a ridere, credendo ormai che io e il buon Cesarone, ci fossimo messi d’accordo per organizzare tutta questa sceneggiata. Passammo qualche giorno a Guadalajara, finché non decidemmo di volare a Città del Messico, scelta quella di prendere l’aereo, dettata più dal desiderio di vedere il prima possibile il sud messicano, che da altre esigenze. Quindi, il giorno fissato per questo volo, ci ritrovammo tutti all’aeroporto di Guadalajara con le nostre valige in mano, in attesa che fosse annunciato il volo che ci avrebbe portato a Città del Messico. Eravamo lì che chiacchieravamo del più e del meno, vicino alla nostra porta d’imbarco, quando uno squillo insistente richiamò la mia attenzione. Un telefono di quelli per comunicazioni interne stava trillando a pochi metri da me, e nessuno si decideva a rispondere… Decisi allora, guidato dal mio spirito burlone, di alzare la cornetta e ridacchiando con il resto della compagnia, pronunciai un sonoro “Allòoo…” che fece scompisciare dalle risate Cesarone e il resto della banda, non altrettanto me… Difatti, dall’altro capo del telefono, la Voce, quella voce, mi bisbigliava: – Fidati di Noi, diffida del profittatore. Devo sicuramente aver fatto una faccia che sembrava più da morto che da vivo, perché persino il “maestro”, che nelle precedenti occasioni, pur non essendo stato presente nei momenti topici, cioè quando ricevevo telefonate simili o buste contenti messaggi come questo, non pareva essersi accorto di nulla, ora sembrava preoccupato per me, anche se non ne capiva il motivo. E difatti dopo qualche secondo che tenevo quella cornetta in mano, proprio il “maestro” venne a prendermela, chiedendomi se tutto andava bene. – Sì… grazie, è che la voce che mi ha risposto, mi sembrava di conoscerla… – dissi cercando di dissimulare un po’ lo sbigottimento che quella telefonata mi aveva procurato. In aereo ne riparlai per l’ennesima volta anche con Silvio e Katherine, che questa volta, essendo stati testimoni di quella telefonata, dubitarono un po’ meno che tutto fosse solo uno scherzo o almeno che fosse un nostro scherzo. Il volo durò poco più di un’ora, tanto che quando vidi le prime luci dell’immensa Città del Messico, stavo ancora discutendo con Silvio, se rivelare o no al “maestro” ciò che era successo fin dal nostro arrivo in terra americana. Sorvolammo per non so quanto tempo una spropositata distesa di cemento e lamiere, di strade e di luci, di immondizia e alberi, non riuscendo a capire da dove diavolo potesse uscire in quel tumultuoso groviglio d’acciaio e terra, uno straccio di pista per atterrare. Poi finalmente, come dal nulla, un piccolo nastro d’asfalto sbucò sotto i nostri piedi, e dopo un paio di minuti l’aereo atterrava lievemente su quella pista che ora sì, era diventata immensa. Dopo aver recuperato i bagagli, ci recammo tutti verso l’uscita, in cerca del furgoncino dell’hotel che avevamo prenotato, e in cui avremmo trascorso un paio di giorni. In hotel, dopo aver salutato l’antropologo e le sue accompagnatrici, convocai il mio gruppo per decidere sul da farsi. Sì, insomma, era ormai chiaro che qualcuno, per puro scherzo o per calcolo personale, voleva far naufragare la collaborazione con il “maestro”, solo che era un mistero chi “loro” fossero, e come facevano a seguire tutti i nostri movimenti, giacché nella maggior parte dei casi, l’itinerario che avevamo fin qui seguito, era stato deciso al momento. C’entrava forse quel falchetto che di tanto in tanto appariva e per un certo tempo mi fissava intensamente? E se c’entrava qualcosa, come diavolo faceva a “comunicare” con “loro”? Decidemmo che era giunto il momento di parlarne all’antropologo, così mandai Cesarone a riferire che intendevamo avere un colloquio con lui. Quando Cesarone rientrò nella suite, ci disse che il “maestro” e le due vestali, ci avrebbero raggiunto subito, appena terminati gli esercizi yoga che stavano facendo. Aggiunse anche che quando una delle due vestali gli aprì la porta, lo accolse indossando un leggero velo bianco praticamente trasparente, mentre vide chiaramente il “maestro” e l’altra tipa, completamente nudi che meditavano avvolti in nubi d’incenso. Quando i tre bussarono alla porta della nostra suite, fortunatamente vestiti, Katherine li accolse alla porta, li fece entrare, e li pregò di sedersi sul divano del salottino della suite. Noi tre, io, Silvio e Cesarone, li raggiungemmo subito dopo, accomodandoci sulle poltrone di fronte a loro. Andai immediatamente al sodo, raccontandogli dei messaggi che avevo ricevuto, del loro contenuto, e del mio e nostro turbamento di fronte a quello che non poteva essere solo uno scherzo di qualcuno che si divertiva a pedinarci per tutto il Messico. Lui e le due vestali, se ne stettero ad ascoltarmi in silenzio, senza proferire parola, ma trasmettendomi, specialmente il “maestro”, una gran tranquillità, come se stessimo parlando di altre persone e non di lui. Alla fine disse solo: – Domani si vedrà – e dopo aver salutato garbatamente tutti, si ritirò nella suite di fronte. Il giorno dopo, al nostro risveglio il “maestro” e le due vestali erano scomparsi, non lasciando traccia da nessuna parte, e qualsiasi tentativo di trovarli e contattarli, anche a mesi o anni da quei giorni, si rivelò infruttuosa.
(fine seconda parte – continua…)

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