Ciu-than. Anteprima 5

Anche questo brano, tratto dal mio ultimo lavoro, in fase di elaborazione, che si intitolerà “Ciu-than. Noi non vi capiamo. Dal Mayab alla penisola yucateca odierna, vagabondaggi tra Storia e storie”, è l’ennesima anteprima di questo libro che potrebbe uscire in stampa per fine anno o inizio del prossimo. Spero piaccia e spero che l’attento lettore possa trovare motivi d’approfondimento, come meritano gli argomenti proposti.

Durante il nostro soggiorno a Bacalar abbiamo avuto occasione di visitare le rovine di Chacchobén, un’antica città maya, probabilmente assoggettata, durante il suo massimo splendore, a una potenza della zona dell’attuale Petén guatemalteco. Questa città, di cui si disconosce il vero nome – il nome, che in yucateco significa “mais rosso”, difatti viene da un villaggio maya ubicato nelle vicinanze – è stato abitato fin dal 200 a.C. e, una delle parti che a oggi è stata portata alla luce, considerato che sono in corso tuttora scavi e ricerche per dissoterrare porzioni del sito ancora nascoste da vegetazione e terra, si compone di un largo terrapieno, delimitato da una scalinata, alla cima del quale si trovano tre piramidi risalenti alla prima parte del periodo classico maya. Purtroppo, a causa del deterioro delle stele su cui erano incisi i nomi dei sovrani che governarono la città, non si conoscono i loro nomi, ma potrebbe essere che con il prosieguo degli scavi emergano indicazioni in tale direzione. Ciò che invece appare certo è il grande fascino che emana il sito, non certo dall’aspetto imponente come si può dire ad esempio di Chichén Itzá o Cobá, ma perfettamente integrato tra la lussureggiante vegetazione del luogo che per secoli ne ha celato i segreti, anche se in certi tratti simile a un giardino inglese… pardon maya. Non provo però nemmeno a immaginare come dev’esser stata prorompente e rigogliosa la vegetezione che ricopriva queste rovine prima del 1972, anno in cui, Peter Harrison, archeologo americano, sorvolando queste zone in elicottero, notò delle collinette che, in una penisola priva di rilievi montuosi non potevano essere altro che piramidi. E così era. L’archeologo segnalò la cosa al governo messicano che iniziò gli scavi nel 1994 ma, evidentemente senza troppa fretta, li concluse solo otto anni più tardi, nel 2002. Oggi Chacchobén è visitabile in giornata da Bacalar e Chetumal, e perfino da Mahahual, quando arrivano le orde di moderni barbari travestiti da vacanzieri fintamente felici che hanno l’ardire di scendere dalla nave da crociera che li ha portati in scalo, per qualche ora, nella Costa Maya – così sono portati a credere, dalla compagnia crocieristica che li ha sbarcati qui, si chiami il molo e l’annesso pueblo, che poi altro non è che Mahahual. Per quanto ci riguarda, penso di non essere troppo lontano dalla verità affermando che la mattinata che abbiamo dedicato alla visita di Chacchobén sia stata, in questo senso, piuttosto fortunata, perché oltre ad avere incontrato una guida locale, la bravissima Alma, originaria dell’omonimo pueblo, ci ha regalato una visita praticamente in solitaria, dato che gli unici altri visitatori erano un gruppo di ragazzotti, forse nord-europei, che sono entrati nel sito quando noi ne uscivamo. E così, grazie a questo e ad Alma, abbiamo potuto apprezzare in pieno le meraviglie del posto, dalle encantadoras piramidi agli alberi del chicle, ossia la gomma da masticare, il chicozapote, dai frutti dell’incenso che Alma ci ha mostrato e fatto annusare, all’albero estrangulador che negli anni si avvinghia a un albero di un’altra specie e letteralmente lo strangola, rubandone nutrimento e infine vita, dalle foglie dell’albero del pepe, alle scimmiette che saltano di liana in liana, fino ai serpenti a sonagli e agli ultimi resti pittorici, del rosso ocra che caratterizzava i muri dele piramidi, di quello che fu la meravigliosa Chacchobén nel suo massimo splendore.

Conclusa la visita al sito, oltre che sentirsi appagati per aver anche solo sfiorato un passato glorioso, camminando nel presente e con uno sguardo rivolto al futuro, si rimane pure con una sensazione forse di rimpianto, come se lasciare quel luogo, in quel momento, significasse perderci ciò che probabilmente emergerà dagli scavi, che ancora continuano a Chacchobén, e che come in passato, chiaramente, vengono eseguiti senza fretta – sempre cattiva consigliera. “Poco male” mi dico uscendo dal sito “vorrà dire che dovremo porre rimedio alla cosa facendo in modo di tornarci, magari tra una decina d’anni…”, e mentre penso a ciò una scimmietta osserva impassibile, dai rami di una suntuosa caoba, la scena, per poi spiccare un salto verso un altro, più lontano, ramo…

Perdere il passato significa perde il futuro

Wang Shu

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