Ciu-than. Anteprima 1

Questo brano, tratto dal mio ultimo lavoro, in fase di elaborazione, che si intitolerà “Ciu-than. Noi non vi capiamo. Dal Mayab alla penisola yucateca odierna, vagabondaggi tra Storia e storie”, è la seconda anteprima di questo libro che potrebbe uscire in stampa per fine anno o inizio del prossimo. Spero piaccia e spero che l’attento lettore possa trovare motivi d’approfondimento, come meritano gli argomenti proposti.

Oggi Cancún, vittima un po’ di quel sistema che l’ha edificata, pur rimanendo sostanzialmente mèta ambita per turisti sempliciotti in cerca di emozioni, non troppo a buon mercato, si ritrova ad essere probabilmente la più pericolosa delle località di una zona, la penisola yucateca, che al contrario, invece è ancora uno dei territori meno afflitti dalla violenza dei narcos, anche se in realtà il Quintana Roo nello specifico, essendo una zona di frontiera, è terra di forte passaggio di stupefacenti, e quindi teatro di conflitti tra bande rivali che interessano soprattutto Playa del Carmen e Cancún Centro, la zona popolare della città, ma che marginalmente hanno coinvolto pure la sua zona “hotelera”, il quartiere turistico.

In Messico il problema del narcotraffico risale praticamente al giorno in cui la repubblica dell’aquila che divora il serpente si è ritrovata come ingombrante vicino gli stati Uniti d’America, cioè da sempre, e d’altronde, come si dice, se non esistesse la domanda non esisterebbe neppure il problema. Le cose iniziarono a prendere la piega che è degenerata fino alla situazione attuale, agli inizi degli anni ’50 dello scorso secolo – e in questo i messicani ebbero come modello di riferimento, fin dall’inizio, noi italiani e la nostra mafia –, ma è solo dal 2006, con la cosiddetta dichiarazione di guerra al narcotraffico lanciata dall’allora presidente Felipe Calderón, che le cose iniziarono a precipitare, raggiungendo livelli di ferocia ed efferratezza mai raggiunti prima. C’è da chiarire, prima di proseguire in ogni tentativo di spiegazione di ciò che è successo e di ciò che sta succedendo oggi in Messico, che questa supposta dichiarazione di guerra al narcotraffico in realtà è stata solo, come tutti i provvedimenti presi in passato, poco più di un’operazione di facciata, una manovra atta più a favorire un determinato cartello criminale ai danni, evidentemente, di tutti gli altri, che una reale volontà nel farla davvero finita con il fenomeno, e infatti nei primi quattro anni della presidenza Calderón, dei 54 mila arresti per narcotraffico, solo mille risultavano interessare gli appartenenti al cartello del Sinaloa, quello, tanto per intenderci, con a capo El Chapo Guzmán, che con il cambio della presidenza – e quindi delle protezioni verso questo o quel cartello –, guarda caso, è finito per essere arrestato per la terza volta… Poi sarebbe arrivata la presidenza di Peña Nieto, sarebbero nate nuove alleanze non convenienti da esibire in pubblico, ma molto proficue dal punto di vista economico personale per il bel Enrique, e i traffici sarebbe comunque continuati, e con essi la scia dei morti sarebbe pure aumentata. Ma come spesso succede, la realtà a volte, è ben più complessa che un giudizio espresso sulla base di preconcetti figli di informazioni spesso forvianti, e rischiando di essere impopolare o di venir frainteso posso affermare che considero tutte le vittime di questa assurda guerra, siano passate esse a miglior vita o stiano marcendo in qualche fetida prigione messicana, siano o siano state candidamente innocenti o palesemente colpevoli, anche dei crimini più atroci, le considero dicevo semplicente vittime, e lampante può essere considerato ad esempio il caso del rapper messicano Christian Omar Palma Gutiérrez, al secolo QBA. Il giovane ventottenne originario di Guadalajara, a fine aprile 2018 confessò, dopo esser stato arrestato con l’accusa di essere coinvolto nella scomparsa di tre giovani studenti di cinematografia, di averli sciolti nell’acido su ordine dei capi del cartello Jalisco Nueva Generación, che li avevano scambiati per infiltrati di un cartello avversario. Christian, vero e proprio gangsta-rapper che nei suoi video su Youtube “rappa” senza peli sulla lingua di violenza, droga ed emerginazione, ha inoltre confessato di incassare per questi suoi “lavoretti” – evidentemente dunque non sarebbe stata la prima volta che faceva “sparire” qualcuno – la “bellezza” di 160 dollari a settimana… Dovrebbe essere evidente anche al giustizionalista più forcaiolo che QBA, Christian o come diavolo si facesse chiamare, oltre ad essere un efferrato carnefice di questa guerra civile che sta insanguinando il Messico, ne è stato pure vittima perché cresciuto tra degrado e quella stessa violenza di cui si vantava, tra la povertà e le droghe a buon mercato, tra la rabbia e la voglia di quella rivincita sociale che probabilmente non potrà più avere. E ciò è ancor più evidente ascoltando uno dei suoi versi, dove nel pezzo che si intitola “Si mañana no estoy” canta “…quiero decirles cuanto me arrepiento de todo lo hize, de todo lo que dije… mamá y papá… perdóneme no pude escapar de la obscuridad”, una confessione per le colpe passate, certamente pesanti, e una disperata richiesta di perdono, che difficilmente verrà accolta dai genitori dei tre studenti uccisi e dalla legge messicana, con qualche probabilità in più dai suoi di genitori e famigliari, perché in fondo “non gli è stato possibile scappare dall’oscurità”.

Oggi, zone come Cancún Centro, Playa del Carmen e, spostandosi verso altri ben più “sanguinari” lidi come Acapulco e tutto lo stato del Guerrero, la penisola della Baja California e tutta la sterminata frontera norte, Sinaloa, Jalisco, Colima e lo stato di Guanajuato, la stessa Città del Messico, il Veracruz e altre aree più o meno isolate, sono occasionalmente – e quotidianamente in alcuni casi – teatro di regolamenti di conti tra bande rivali che lasciano centinaia e migliaia di vittime, un saldo di omicidi da guerra civile che dà l’idea di un Paese sull’orlo di una pericolosa “anarchia” che però non rispecchia la realtà di quello che il normale turista troverà durante la sua vacanza o il suo viaggio. Anche perché, in genere, almeno che uno non vada proprio alla ricerca di guai, per un turista, non solo è molto raro che cada vittima di un qualche scontro tra gang rivali o che venga rapito, ma è anche abbastanza difficile che assista a un qualunque crimine legato al narcotraffico, e pure che percepisca, anche minimamente, un qualche pericolo di questo genere. E poi in Messico, l’ho incominciato a imparare da quando ho preso a frequentarlo quasi vent’anni fa, tutto dipende da l’onda che trasmetti, termine intraducibile che più o meno significa “da come ti comporti” o “da il tuo atteggiamento verso gli altri”, che poi è anche la tua capacità di adattarti al loro ambiente e il rispetto per le loro usanze, ma il cui autentico significato sicuramente si impara, comprese tutte le svariate sfumature, solo vagabondando tra le polverose strade di questo Paese e venendo a contatto con lo straordinario universo delle genti messicane. Personalmente, in quasi dieci occasioni in cui sono stato in Messico, mi è capitato solo una volta di incorrere in un episodio che poteva essere spiacevole, un tentativo ridicolo e quasi esilerante di rapina. Eravamo appena arrivati a Città del Messico, la prima volta in assoluto, provenienti in autobus da Guadalajara. Stanchi e affamati vagavamo per il Centro Historico in cerca di un ristorante di cucina yucateca, curiosi di provare qualche delizia, quando un amico italiano, sovente protagonista in terra messicana, ma non solo, di avventure tragico-comiche e persino surreali, si ferma, o viene fermato da un tizio, cui evidentemente si rivolgere per chiedere informazioni… Il tipo si dimostra amichevole e gentile, e si offre di accompagnarci a un ristorante che dice di conoscere. Il mio amico, bravo ragazzo, all’epoca un filino ingenuo, accetta entusiasta l’aiuto, e con lui, io e mio fratello lo seguiamo famelici, data l’ora e l’appettito. Io in realtà un po’ mi insospettisco, il tipo è troppo gentile, ma faccio il conto che lui è da solo e noi in tre, e poi mentre penso a ciò, superiamo una pattuglia della polizia ferma davanti al marciapiede su cui stiamo transitando in quel momento… Un paio di centinaia di metri più avanti, dopo aver girato l’angolo per una calle poco frequentata, il tipo si gira “minaccioso” verso noi tre e affermando che è il campione messicano di boxe, ci intima di dargli le nostre scarpe da tennis, evidentemente non al corrente che suddette scarpe siano quasi da buttare… Con non poca sorpresa e pure con una certa dose di ironia mista a un po’ di sfrontatezza, allora gli rispondo che lui sarà pure campione di boxe, ma tre ragazzotti all’apice della loro forma fisica e una pattuglia di polizia a poche centinaia di metri da quella strada, non sono sicuramente ostacoli facili da superare, e in più, in quanto a furbizia, non sembra proprio un “campione” visto che avrebbe potuto organizzarla un po’ meglio. Il tipo ci guarda perplesso, guarda al di là della strada come a vedere se spunta la polizia, l’esercito o la CIA, e con sguardo da sconfitto e la coda tra le gambe si allontana frettolosamente, lasciandoci soli e affamati alla ricerca di un ristorante yucateco…

L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare.

Eduardo Galeano

Da un viaggio si torna sovente con nuove chiavi di lettura della realtà. Meno spesso si torna con soluzioni e spessissimo invece con nuovi dubbi. E allora, parafrasando Eduardo Galeano, a cosa serve il viaggio? A questo, per continuare a camminare…

 

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