Aztlán. Ben più di una patria…

“La ricerca di suo padre, assieme alla ricerca dell’Aztlán – e in fondo delle proprie, come delle altrui origini – era risultata incerta, sfuggente ed evanescente, come il fantasma di suo padre, che se non lo avesse visto con i propri occhi, avrebbe giurato fosse davvero un fantasma… Come tutte le invariabilmente imperfette Aztlán che avevano incontrato. Come i mille sguardi delle mille donne che avrebbe voluto amare. Come il lungo addio che beffardo, lo aspettava una volta sbarcato a La Batanga, sulla riva sicura di quel suo, fino ad allora, incerto procedere a tentoni.”

(tratto da “Alla ricerca di Aztlán”, di prossima pubblicazione…)

Scrivendo il mio primo romanzo (relativamente) breve, che verrà pubblicato tra qualche mese dalla piccola, ma intraprendente Writers Editor https://www.shopwriterseditor.it/, mi sono imbattuto in una storia che un po’ regge da sola tutta la struttura narrativa del romanzo stesso, una storia sull’origine di una delle civiltà mesoamericane più popolari ed affascinanti: quella azteca. Una storia che a grandi linee conoscevo già, più per motivi sentimentali che di effettivo interesse intellettuale in realtà, considerando poi che i due terzi della mia famiglia ha in parte anche queste radici. La civiltà azteca infatti, che in realtà è solo una tribù di una ben più ampia cultura, quella nahua, oggigiorno stimabile attorno ai 2,5 milioni di individui, condivide proprio con questo insieme di popoli più o meno eterogenei, il mito della patria d’origine, quella incerta ed effimera Aztlán, che è proprio la storia a cui accennavo, oggetto da più di un secolo di studi e ricerche che partendo proprio dal mito, hanno cercato di trovare una collocazione geografica alla culla di questa importante civiltà. Per capire meglio il contesto storico e mitologico della cosa però, si dovrà partire dalla fine, o meglio dall’ultima tappa che questa tribù, fino ad allora nomade e semi-selvaggia, aveva raggiunto nella propria lunga migrazione, ovvero le rive sud-occidentali del lago di Texcoco. Questo esteso specchio d’acqua, oggi praticamente scomparso, sorgeva ai tempi (siamo nei primi decenni del 1300) laddove oggi sorge l’immensa Città del Messico. Gli aztechi, il cui nome più appropriato è mexicas, dopo essere giunti per ultimi sulle rive di questo lago, sulla scia delle altre tribù di origine nahua, provenienti appunto da quella mitica ed incerta Aztlán, finirono per attestarsi, guidati dalla fede incrollabile nei confronti della loro principale divinità che li aveva guidati fin là, il feroce e temibile Huitzilopochtli, proprio dove oggi sorge la capitale messicana. Il tutto in virtù della profezia secondo cui i mexicas avrebbero dovuto fondare la loro nuova patria – una nuova Aztlán dunque – in un luogo sacro che gli sarebbe stato annunciato dalla visione di un’aquila appollaiata sopra ad un cactus intenta a divorare un serpente, quella stessa che oggi appare al centro della bandiera messicana. Qui dunque i mexicas costruirono la loro grandiosa capitale, Tenochtitlán, secondo l’iconografia mitologica della loro patria d’origine, l’Aztlán appunto, tanto che l’aspetto della capitale mexica finirà per ricalcare proprio quello che secondo la leggenda aveva la loro patria d’origine: un’isola in mezzo ad uno specchio d’acqua, una costante poi in tutte le precedenti Aztlán “intermedie” che questo popolo incontrerà nella loro mitica migrazione dalla patria di origine, prima di Tenochtitlán, con varianti più o meno minime che ne confermano comunque la somiglianza con il presunto “modello originario” di Aztlán. Ed è proprio questa singolare vicenda delle Aztlán “intermedie”, nonché la ricerca di quella progenitrice, se mi si passa il termine, a dare alla storia in sé, ma anche a quella narrata nel mio romanzo, un significato che va al di là della mera ricerca di un’origine, l’Aztlán appunto, che sostanzialmente è, come vedremo in seguito, più un concetto astratto, che un luogo vero e proprio. Certo, è sicuramente vero che tra le località ipotizzate dagli studiosi, alcune delle quali poste comunque nell’area centrale del Messico, ci sono anche luoghi piuttosto precisi in cui qualche reperto a sostegno della “titolarità” di culla della tribù mexica è stato pure ritrovato (tra di queste la collina di Hualtepec, l’isola di Janitzio sul lago di Pátzcuaro, qualche isolotto nella laguna di Yuriria, la collina di Culiacán lì nelle vicinanze – quest’ultima associata anche a Chicomóztoc, la montagna delle sette caverne, luogo mitologico da cui secondo la leggenda spuntarono le sette principali tribù nahua, e guarda caso anticamente chiamata Teoculhuacan Chicomoxtoc Aztlán appunto – e altre ancora). Ed è ugualmente accettato dagli stessi esperti del settore che ulteriori possibili Aztlán si troverebbero invece piuttosto distanti dall’odierna Città del Messico (tra di queste il pueblo di Mexcaltitán, borgo costruito guarda caso in un’isoletta posta in un’ansa di un limaccioso fiume che non troppo distante da questo villaggio sfocia poi nel Pacifico, ma pure la collina di Coamiles, che si trova non troppo distante dalla stessa Mexcaltitán, entrambe forse due delle più probabili Aztlán, o solo due delle più suggestive). Più pittoresche, o forse solo eccessivamente fantasiose sono poi altre ipotesi ancor più lontane dalla Valle de México, che collocano Aztlán addirittura in una contea dell’attuale Wisconsin o dalle parti di una laguna nello Utah…

Tutte queste ipotesi, e altre ancora, oltre essere ognuna supposte patrie originarie, quindi ipotetici punti di partenza di quella mitologica migrazione durata un paio di secoli, possono esser state semplicemente delle tappe “intermedie”, di importanza certo rilevante, ma sono probabilmente molto di più e tutta questa storia, a ben vedere, può farci giungere ad almeno tre conclusioni che hanno un significato generale ben più ampio che non il risolvere il mistero sul luogo di origine dei mexicas. La prima ci dice che è senz’altro sempre utile, per chiunque, mexica o meno, mettersi alla ricerca di qualcosa, siano esse le radici da cui si proviene, un’amore non corrisposto o una qualsiasi altro obiettivo che ci realizzi come esseri umani. La seconda conclusione vuole invece sottolineare che qualsiasi obiettivo, per quanto utopico e apparentemente irrealizzabile, serve in fondo, parafrasando una frase di Eduardo Galeano sull’utopia, a continuare a camminare, nella spasmodica ricerca di un orizzonte che sembra irraggiungibile, ma che in realtà tale lo è, e definitivamente, se ci si arrende al razionale, rinunciando a rincorrere il proprio personale sogno, anche quando il perseguirlo sembra irragionevole. La terza e ultima conclusione, forse la più importante, è che in realtà la vera patria, per ogni essere umano, non è nessuna effimera Aztlán, e nemmeno nessun altrettanto effimero stato moderno. La nostra unica vera patria è il mondo intero. Le supposte razze umane, le nazionalità e tutte le artificiose differenze che l’uomo ha creato per perpetuare il proprio dominio sugli altri uomini, esistono solo nelle teste di chi non vede più in là del proprio naso dimenticando, o forse non avendolo mai considerato, nella tipica ottusità mentale che contraddistingue certi individui, che l’unico vero confine è in realtà l’orizzonte, che è talmente immenso che di certo non può stare rinchiuso nello spazio ristretto di un sostantivo così piccolo e limitato come è la parola e lo stesso concetto di patria, né in ogni altra parola, dal significato simile, in qualunque altra lingua umana…

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