Tra letteratura disegnata e romanzo. Quando le categorie diventano inutili.

Il marinaio non riusciva a trovare le parole per descrivere quel volto: i pensieri si bloccarono, il sole divenne quasi accecante, finché un lieve sorriso della giovane donna non sciolse tutta la scena, inebriando ulteriormente la testa del marinaio che
prese a divenire leggera, quasi fluttuasse nell’aria. Al sorgere di una strana alba in quell’altrettanto strana notte “diurna”, gli effetti del biscotto andarono gradualmente
scemando, lasciando all’uomo una gran fame da trip psichedelico, e un discreto mal di testa.”

(tratto da “Alla ricerca di Aztlán“, di prossima pubblicazione…)

I miei più recenti lavori (“Xilitla. Il folle sogno infinito di un anarchico fedele alla coronahttps://unmonitoraccartocciato.altervista.org/category/xilitla/, pubblicato l’anno scorso dalla fantomatica Pirati Edizioni e Autoproduzioni, e il romanzo “Alla ricerca di Aztlánhttps://unmonitoraccartocciato.altervista.org/alla-ricerca-di-aztlan/?doing_wp_cron=1678288385.2999019622802734375000, di prossima pubblicazione invece per la Writers Editor https://www.shopwriterseditor.it/), oltre a darmi la possibilità di continuare a scrivere, considerati gli innumerevoli spunti per future opere che da questi due libri si possono ricavare, mi forniscono qui la sponda per approfondire delle tematiche che almeno negli ultimi tre anni sono state spesso al centro di alcune mie riflessioni su questo blog. Sto parlando della curiosa tendenza umana di dividere l’esistente in categorie, e di quanto ciò sia in realtà fuorviante, considerata l’innata variabilità della natura stessa delle cose, ma pure, non di rado, considerato l’intervento della fantasia umana, che nonostante corrisponda molte volte a quella variante in grado di far emergere il genio, tende anche a complicare ulteriormente ogni discussione. Nello specifico di questo articolo, mi riferisco ad un argomento che proprio con i miei due ultimi lavori ho cercato di affrontare, ovvero le mille sfumature, e le altrettante contaminazioni che un genere letterario, spesso considerato a torto minore, come può essere considerato quello fumettistico, ha in sé. Alla categoria che genericamente viene definita fumettistica, da diversi anni divenuta popolare con l’improprio anglicismo graphic novel, vengono difatti attribuite arbitrariamente varie sotto-categorie. Certo, l’aggettivo improprio è comunque opinabile, ma la sfumatura, per così dire letteraria, che ha assunto il genere, ci ricorda che almeno per il filone oggetto di questo articolo, l’origine va ricercata nel nostro Belpaese, con autori quali Crepax, Manara e Pratt tra i pionieri, e con proprio quest’ultimo che ha ribattezzato il genere con un italianissimo, ed evidentemente più appropriato, “letteratura disegnata”. La questione che però voglio approfondire qui esula da rivendicazioni nazionalistiche che non fanno assolutamente parte della mia formazione personale, ed è cosa per certi versi moderatamente complessa, ma che può essere comunque riassunta brevemente in queste due domande: che cosa si considera per “letteratura disegnata” e fino a che punto tale termine riguarda solo opere che hanno a che fare in maniera diretta con il disegno, ovvero che siano a fumetti? Una risposta univoca chiaramente, non solo non basta a risolvere del tutto la questione, ma probabilmente non esiste, per cui voglio portare ad esempi due casi di opere forse non catalogabili come letteratura disegnata, perché contaminate da altri generi, ma che in qualche maniera sono a questa categoria collegate. I primi romanzi in particolare di Marco Steiner – oggi affermato scrittore, ieri tra i più stretti collaboratori proprio del padre della letteratura disegnata, Hugo Pratt – e in maniera molto più modesta, il mio ultimo “Alla ricerca di Aztlán“, sono due esempi di questo genere “contaminato” dal disegno, un ibrido, mi si passi il termine, spesso capace di ricreare le atmosfere e le pulsioni tipiche della letteratura disegnata, ma senza il supporto dell’illustrazione grafica. Il romanzo classico difatti, di solito prende un’immagine che pur potendo essere anche reale, è frutto come minimo di elaborazioni mentali e spesso di invenzioni narrative, e la trasforma in un testo. Quello che in qualche maniera deriva dalla cosiddetta letteratura disegnata, come invece i due esempi sopracitati, oltre a prendere quell’immagine, oltre a prenderne, per così dire la poesia, ne prende pure i segni, il tratto, i riverberi, le sfumature, e tutto ciò che la trasformerebbero in un opera visiva. In pratica tramuta in parola acquerelli, scarabocchi, quadri, bozze o disegni mai realizzati. Ecco dunque che le risposte alle domande fatte in precedenza diventano complicate da dare, almeno usando lo schema del genere e delle categorie. E dunque, senza schemi prefissati, si arriva invece più facilmente ad una conclusione, che corrisponde più o meno a quella abbozzata all’inizio. Le categorie appunto, le suddivisioni arbitrarie e il solo fatto di voler rinchiudere una qualsiasi cosa, persona o animale, o nel nostro caso, un qualsiasi libro, dentro alla gabbia di una definizione prestabilita, non solo è limitante ai fini creativi, ma è di per sé errato, perché ogni libro, ogni opera frutto dell’intelletto umano, rientra di solito in più di un genere, artistico e non, anche molto diversi tra di loro. E da solo, ogni libro, può in fondo essere considerato un genere a sé, unico e inimitabile. Esattamente come la persona che lo realizza. E in realtà, pare evidente, pure come la persona che poi lo andrà a leggere…

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