México Sur Real – Un giorno, a Real… (terza parte)

(terza parte)

– Già – intervenni io per interrompere il silenzio che si era creato dopo questi due quesiti conclusivi di Robert – cosa nascondiamo dentro e perché lo nascondiamo? Robert dall’altro capo del telefono non emetteva alcun suono, per cui continuai chiedendogli: – Posso farti una domanda Robert? – Sì certo – rispose lui un po’ esitante. – Sei mai più ritornato a Huautla? E hai più assunto questi funghi, Robert? – chiesi con il capo rivolto verso il basso, a osservare distratto i miei fogli sparpagliati sul tavolo, e con le mani a reggere le grosse cuffie che tenevo sulle orecchie. Robert non rispose subito, come se la risposta andasse in qualche modo meditata. Poi finalmente rispose: – No Dave, non sono mai più tornato a Huautla, e non ho mai più provato i funghi, come del resto nessun altro tipo di sostanza psicoattiva. In pratica la mia ultima esperienza con questo tipo di sostanze, è stata proprio quella che ho appena finito di raccontarti. – Perché Robert? – chiesi al buio dello studio 4, dopo qualche secondo di riflessione, per poi aggiungere: – Cioè voglio dire, cosa è successo dentro di te da quel giorno? Perché questa decisione di smettere con tutte le sostanze in grado di alterare la percezione? Aspettai la risposta di Robert per alcuni lunghi secondi, ma mi venne in mente che forse avrebbe potuto fraintendere la mia domanda, per cui precisai: – Intendiamoci Robert, non voglio assolutamente fare un’apologia alle cosiddette droghe infatti, come già detto in precedenza, lasciamo ogni valutazione morale all’intelligenza dei nostri ascoltatori. Volevo solo capire se questa decisione ha a che fare con i funghi, e se sì, cosa hai trovato nei funghi per scegliere questo percorso. Questa volta, Robert rispose quasi subito al mio intervento, anche se era abbastanza esitante, probabilmente perché stava cercando le parole giuste per esprimere un concetto non semplice da spiegare. Poi riuscì a riordinare abbastanza bene i suoi pensieri e alla fine mi rispose: – Be’ Dave, come potrai capire la risposta alle tue domande, non è troppo facile da articolare, almeno senza rischiare di cadere nella banalità. Diciamo però, che come detto all’inizio, l’aver in qualche modo dissacrato il mondo dei funghi, assumendoli per curiosità o poco più, mi ha portato a iniziare una riflessione sulla vita, sul senso della mia esistenza in questo mondo, e su quanto piccoli siamo in confronto all’infinito, allo sconosciuto, nonostante abbiamo la presunzione di dominare l’esistente, che è poi una piccolissima parte di quello che si nasconde nell’universo. Per un altro breve istante calò di nuovo un velo di silenzio tra le frequenze della radio, poi Robert riprese, calmo e riflessivo come lo era stato fino a quel momento: – Così, alla fine di questo periodo di riflessione, che è durato un paio di mesi, ho trovato le mie personali risposte a domande molto simili a quelle che tu ora mi hai posto, ed essendo le mie risposte, scusa, ma preferisco non rivelarle, anche perché possono andare bene per me, ma magari per qualcun altro no. Diciamo che comunque, nei funghi ho trovato qualcosa di immensamente importante, una parte di me che mancava si è rivelata, come si è anche rivelata una parte, chiamiamola oscura, che era contemporaneamente dentro e fuori di me, e l’aver preso coscienza della sua esistenza, magari dire che mi ha spaventato non è esatto, diciamo che ne ho rispetto, perché ora so cos’è, e so che c’è, l’ho vista capisci? Le ultime parole di Robert vennero pronunciate, se non bastasse, con ancor maggior pacatezza rispetto al tono usato fino a quel punto, per cui l’eventuale disagio di dire una cosa del genere al termine del discorso che aveva appena concluso, fu la più naturale delle cose, e Robert appariva nel mio immaginario, come uno di quei pochi uomini ad aver raggiunto un elevato livello di saggezza, almeno se raffrontato con la media della popolazione americana, e godeva di una posizione spirituale invidiabile dalla maggioranza degli esseri umani. – Bene Robert, ti ringrazio anche a nome di tutti i radioascoltatori per la tua preziosa testimonianza – dissi soddisfatto, pensando a quanto mi piaceva il mio lavoro quando capitavano episodi come questo che ne ero certo, aveva sicuramente commosso più di una persona – e ti invito, come invito anche tutti gli altri radioascoltatori ad ascoltare il prossimo brano in programmazione, che magari non avrà troppo a che fare con quanto abbiamo detto finora, però si inserisce nel contesto generale della nostra discussione in maniera efficace. La canzone si intitola “Walk on the wild side” e il tizio che canta è un certo Lou Reed. Spero sia di tuo gradimento Robert. – Altroché – rispose entusiasta Robert che subito dopo mi salutò amabilmente come era scontato attendersi da una persona con il suo temperamento. Quando le prime note della canzone risuonarono nelle mie cuffie, chiesi a Isidro se mi procurava un paio di birre fredde “perché la notte andava coccolata” pensai, mentre il coro in falsetto della band di Lou Reed, richiamava l’ambiguità sessuale di alcuni personaggi della “Factory” di Andy Warhol, di cui la canzone narra le “gesta”. Mi immaginai seduto al volante mentre questa canzone andava, a respirare la notte americana e a fumare mozziconi di sigarette che immancabilmente avrei lanciato fuori dal finestrino. Poi sul mio volto si stampò come un mezzo sorriso, e mi dissi che ad ascoltare quel pezzo, me ne stavo bene anche lì dentro, nel mio caro studio 4. Alla fine della canzone annunciai un’altra mezza dozzina di languide ballate blues e rock, intervallate da qualche mio commento sulla notte americana, sulle anime che la vivono, sull’atmosfera di Real e su altri deliri simili in parte scaturiti da ciò che stavo bevendo. Quando finalmente Isidro mi informò che potevamo passare la telefonata che avrebbe chiuso il trittico di testimonianze su esperienze da assunzione di sostanze psicotrope, alla fine del brano che avevamo trasmesso, intervenni nuovamente annunciando un’altra importante telefonata – forse la più particolare delle tre sotto alcuni aspetti – dissi, prima di svuotare i rimasugli ormai tiepidi della seconda birra consecutiva che Isidro mi aveva fatto portare. – Abbiamo ora in onda Jack che ci parlerà della sua esperienza, ci sei vero Jack? – dissi entusiasta per ciò che questo Jack avrebbe raccontato ai microfoni della radio. – Sì Dave, buonanotte, sono qui – rispose con voce un po’ esitante questo Jack. – Bene Jack, buonanotte anche a te, come stai? – Bene Dave, grazie. Dopo i convenevoli di rito, e dopo aver un po’ messo a suo agio il radioascoltatore che avevo in linea, entrammo finalmente, senza alcuna forzatura, nella parte clou dell’intera nottata: – Ok Jack, ti andrebbe di introdurre un po’ le tue radici, e la storia che ci andrai a raccontare? – chiesi a Jack. – Sì Dave, certo – disse Jack facendo una breve pausa. Poi riprese: – Mi chiamo Jack, ma nella mia tribù sono conosciuto come Felce d’argento. Sono difatti un nativo americano della tribù dei Kiowa, e vivo dalle parti di Oklahoma City, insieme alla mia comunità. Tutti noi Kiowa, siamo profondamente legati alla nostra terra e alle celebrazioni cerimoniali che fanno parte delle nostre tradizioni tribali, tra cui vi è quella di Donna Peyote, celebrazione che da noi spesso si svolge all’interno dei tepee, quelle che voi chiamate tende indiane. Naturalmente anch’io ho partecipato varie volte a queste cerimonie che per noi Kiowa hanno un significato profondo, perché ci legano in maniera indissolubile alle nostre radici, che come ben sai ci furono strappate qualche secolo fa dai coloni bianchi. Donna Peyote ha infatti il potere di unire le nostre genti, preservandoci dalla corruzione spirituale che l’infausta civiltà, che ci ha in pratica ridotti in schiavitù, ci ha imposto. Dopo un’altra breve pausa in cui emise un leggero colpo di tosse, Jack riprese tranquillo l’introduzione al suo racconto, mentre io ascoltavo in religioso silenzio: – Stanotte Dave, ho acceso la radio perché non riuscivo a dormire e… be’ non lo faccio spesso neanche durante il giorno, figuriamoci di notte, fatto sta che mi sono sintonizzato sulle frequenze della tua radio che da profano, considero una delle migliori di questo paese. Quando ho ascoltato l’argomento che avresti affrontato questa notte, ho deciso immediatamente di telefonare per raccontare la mia iniziazione al culto di Donna Peyote, ma anche un po’ per riscattare dall’oblio la storia e la cultura della mia tribù. – Bene Jack – intervenni io – ti prego dunque di raccontare ai nostri ascoltatori notturni, le nostre anime della notte, la tua iniziazione. Prego magari Isidro, il nostro tecnico del mixer, di mandare una base appropriata, sempre che non ti disturbi Jack. – No Dave, nessun disturbo – disse Jack, apprestandosi a iniziare il racconto. Isidro mise come sottofondo un non meglio identificato pezzo etnico di una qualche tribù di nativi americani che ebbe l’indubbio merito di portare i nostri cuori e le nostre menti ad assaporare suggestioni e sensazioni del contesto di cui stavamo iniziando a parlare. Allora Jack “Felce d’argento” iniziò il racconto.

– Eravamo riuniti in cerchio dentro ad una casa di legno – esordì Jack, mentre là fuori tutta la notte americana ascoltava silenziosa – all’interno di una stanza completamente spoglia, se si escludeva il piccolo altare costruito proprio nel mezzo della stanza. Ricordo che ero abbastanza timoroso per ciò che avrei vissuto, ma la rigida disciplina appresa nella mia comunità, mi impediva di darlo a vedere chiaramente. All’improvviso uno degli uomini che erano seduti con me attorno al cerchio, si alzò e andò in un’altra stanza. Era sulla cinquantina, scuro, alto e ben piantato. Un attimo dopo tornò indietro con un barattolo di caffè, tolse il coperchio e me lo diede; dentro c’erano nove strani oggetti di forma e dimensioni diverse. Alcuni erano quasi rotondi, altri avevano una forma più allungata. Li tenni in mano, strofinandoli per un bel pezzo. – Si masticano – mormorò il Road Man, lo sciamano che mi avrebbe iniziato al rito. Non mi ero reso conto che era venuto a sedersi accanto a me fino a quando non parlò. Erano nove bottoni di peyote, la Donna Peyote. Guardai gli altri uomini, ma nessuno di loro mi stava osservando; parlavano tra loro a voce molto bassa. Per me quello fu un momento di profonda paura e indecisione: mi sentivo quasi incapace di controllarmi. – Devo andare in bagno – gli dissi. – Esco a fare due passi. Rimisi i peyote nel barattolo di caffè che lo sciamano mi aveva passato e stavo per uscire quando l’uomo che me lo aveva dato si alzò, venne verso me e mi disse che nell’altra stanza c’era un catino che fungeva da toilette. Il gabinetto era praticamente a ridosso della porta e lì accanto, quasi attaccato, c’era un grande letto che occupava più di metà camera, dove stava dormendo una donna. Rimasi immobile sulla porta per qualche minuto, poi tornai nella stanza dove si trovavano gli altri. Uno degli uomini mi chiese perché volessi incontrare Donna Peyote e risposi che desideravo sapere com’era. Risero timidamente. Poi il Road Man, porgendomi nuovamente il barattolo con dentro i peyote, mi esortò dolcemente a masticarli. Avevo le mani sudate e lo stomaco contratto. Ne presi uno a caso e lo infilai in bocca: sembrava qualcosa andato a male. Lo divisi in due con i denti e iniziai a masticarne un pezzo. Sentii un sapore amaro forte e pungente e un attimo dopo la mia bocca perse la sensibilità. Con il passare del tempo il gusto amarognolo aumentava, producendo un’intensa salivazione. Più tardi passai all’altro pezzo, ma ormai la mia bocca era talmente anestetizzata che non sentivo neanche più il sapore amaro. Il rituale fu ripetuto sei volte. Intanto si intonavano inni a Donna Peyote, ma a me non riusciva ad aprire bocca. Sentivo un forte desiderio di vomitare, ma non ricordo di averlo fatto. Chiesi dell’acqua: la sete era diventata insopportabile. Lo sciamano mi portò un grosso tegame, lo mise per terra accanto alla parete, prese anche una tazzina o un recipiente, lo immerse nel tegame e me lo passò, dicendo che non potevo bere, ma solo rinfrescarmi la bocca. L’acqua era stranamente splendente, lucida, come vernice densa. Volevo chiederne al Road Man il motivo e mi sforzai di dare voce ai miei pensieri in inglese, ma poi mi resi conto che stranamente non parlava la mia lingua. Mi sentivo confuso e mi accorsi che pur avendo un pensiero ben preciso in mente, non riuscivo a proferire parola. Volevo dire qualcosa sulla strana qualità dell’acqua, ma il mio desiderio non si tramutava in discorso; avevo l’impressione che quei pensieri inespressi mi uscissero di bocca in forma liquida. Avvertivo la classica sensazione dei conati di vomito, ma senza contrazioni del diaframma. Era un piacevole flusso di parole liquide. Bevvi un sorso e quella sensazione scomparve. Nel frattempo tutti i rumori erano svaniti e mi accorsi che avevo difficoltà a mettere a fuoco gli oggetti. Cercai lo sciamano e, voltandomi, notai che il mio campo visivo si era ridotto a un’area circolare di fronte a me. Non provai una sensazione di paura né di disagio, ma al contrario, fu una novità; potevo scrutare il pavimento fissando un punto e poi muovendo piano la testa in qualsiasi direzione. Mi resi conto di essere uscito dalla casa, e notai che a parte il lontano bagliore delle luci della città, ero immerso nell’oscurità. Tuttavia, all’interno dell’area circolare del mio campo visivo, tutto era chiaro. Vidi il punto in cui la superficie e la parete del porticato si incontravano. Mi voltai a destra, seguendo il muro, e vidi lo sciamano seduto con la schiena appoggiata. Girai la testa a sinistra per individuare l’acqua, vidi il fondo del tegame; alzai leggermente la testa e scorsi un cane nero di taglia media avvicinarsi in direzione dell’acqua. Quando fece per bere, alzai la mano per allontanarlo. Focalizzai la mia visione mirata su di lui e tutto a un tratto lo vidi diventare trasparente. L’acqua si era trasformata in un liquido splendente e viscoso che scendeva nel corpo del cane attraverso la gola. La osservai scorrere uniformemente lungo tutto il corpo e poi guizzare fuori dai peli. Vidi il fluido iridescente passare attraverso ogni singolo pelo, per poi fuoriuscire formando una lunga criniera bianca e setosa. In quel momento avvertii intense convulsioni e in pochi istanti si formò intorno a me un tunnel basso e stretto, duro e stranamente freddo, che al tatto sembrava una parete di carta stagnola solida. Mi accorsi che ero seduto sul pavimento del tunnel. Tentai di sollevarmi, ma sbattei la testa contro il tetto di metallo e la galleria si restrinse fino a soffocarmi. Ricordo di aver strisciato fuori verso un punto circolare in fondo al tunnel; quando vi giunsi, se mai ci riuscii, avevo dimenticato tutto del cane, del rito di iniziazione e di me stesso. Ero esausto. I miei vestiti erano impregnati di un liquido freddo e appiccicoso. Mi rotolai avanti e indietro, cercando di trovare una posizione in cui avrei potuto riposare, un luogo dove i battiti del mio cuore sarebbero diminuiti. Durante uno di quegli spostamenti vidi di nuovo il cane. Dopo una breve pausa, simile a un appena accennato colpo di tosse, Jack riprese, preciso e riflessivo come all’inizio:  Tutti i ricordi riaffiorarono alla mente proprio in quel momento, e all’improvviso ritrovai la lucidità. Mi girai a cercare lo sciamano, ma non riuscii a distinguere nulla. L’unica cosa visibile era il cane che diventava iridescente: il suo corpo emenava una luce intensa. Vidi ancora una volta l’acqua che scorreva attraverso il corpo dell’animale, accendendolo come un falò. Mi avvicinai al tegame, immersi il viso e bevvi insieme a lui. Tenevo le mani appoggiate sul terreno di fronte a me, e mentre bevevo, vidi il liquido scorrere nelle mie vene dando vita a sfumature di rosso, giallo e verde. Continuai a bere fino a prendere fuoco; ero completamente ardente. Bevvi finché il fluido mi uscì dal corpo attraverso i pori, proiettandosi all’esterno come fibre di seta, donando anche a me una lunga criniera brillante e iridescente. Guardai il cane e vidi che era uguale alla sua. Una felicità assoluta pervase il mio corpo e insieme corremmo verso una fonte di calore giallo che proveniva da un luogo indefinito, dove iniziammo a giocare. Giocammo e lottammo fino a conoscere i reciproci desideri. Facevamo a turno a manovrarci a vicenda come in un teatro di marionette. Riuscivo a fargli muovere le gambe piegando le dita dei piedi e, ogni volta che lui abbassava la testa, sentivo l’irresistibile impulso di saltare. Ma la sua birichinata più grande era quella di farmi grattare la testa con un piede mentre ero seduto, un effetto che otteneva muovendo le orecchie da una parte all’altra. Lo trovavo estremamente divertente e riuscivo a trattenermi a malapena. Pensai che si trattasse di un grande esempio di grazia e ironia, di maestria. L’euforia che mi prese era indescrivibile. Risi quasi fino a rimanere senza fiato. Avevo la sensazione di non riuscire ad aprire gli occhi, come se guardassi attraverso una vasca piena d’acqua. Rimasi in quello stato doloroso per molto tempo, in preda alla paura di non riuscire a svegliarmi, pur essendo sveglio. Poi, all’improvviso, il mondo divenne chiaro e nitido. Il mio campo visivo tornò a essere circolare e ampio e allora fui in grado di compiere un’azione cosciente e appartenente alla realtà che conoscevo prima, quella di voltarmi a guardare quell’essere meraviglioso. A quel punto si verificò la transizione più difficile; il passaggio dal mio stato normale era avvenuto senza che quasi me ne rendessi conto, ne ero consapevole, i miei pensieri e le mie sensazioni erano il corollario di quella consapevolezza e il passaggio fu morbido e chiaro. Ma questa seconda trasformazione, il risveglio a una coscienza seria e sobria, fu davvero scioccante. Avevo dimenticato di essere un uomo! La tristezza causata da uno stato così contradditorio fu così intensa da farmi piangere. – Quando tornai alla casa di legno – riprese Jack dopo una breve pausa – ed entrai, per poi dirigermi verso la stanza che ospitava il “bagno”, incrociai per pochi secondi la donna che avevo visto la sera prima dormire in quel grande letto. Mi guardò per un istante, sorrise timidamente, e poi lentamente si incamminò verso l’uscita, non producendo nessun rumore, nemmeno un fruscio. Era Donna Peyote. Ne fui certo.

– Un silenzio surreale ancora una volta avvolse tutto lo studio 4 della radio, irradiandosi nell’etere e raggiungendo i miei radioascoltatori che probabilmente, impressionati positivamente dal racconto di Jack almeno quanto lo ero rimasto io, difficilmente avrebbero compreso che quel silenzio in una radio non era proprio una cosa normale. C’è da dire che anch’io, per l’ennesima volta quella notte, non avvertii subito l’anomalia, ma poi, quando mi accorsi che avrei dovuto dire qualcosa, qualsiasi cosa, me ne uscì con i soliti ringraziamenti e saluti al radioascoltatore di turno, in questo caso a Jack “Felce d’argento” per il suo prezioso racconto, e un saluto a quanti ancora erano alla radio ad ascoltare la mia trasmissione. Alla fine, feci segno a Isidro di mandare il prossimo brano in scaletta che un po’ per scelta, un po’ perché non ne avevo voglia, neanche presentai, convinto com’ero che anche i sassi conoscessero “Riders on the storm” la celeberrima canzone dei Doors che si apre con i tuoni e il rumore della pioggia che cade nel deserto. E quando Jim Morrison iniziò a cantare le prime strofe di questa canzone, stappai l’ennesima birra della nottata, a celebrazione dell’indiscutibile successo della trasmissione  almeno a livello di soddisfazione personale  anche per quella puntata. A conclusione del brano, con i tuoni e il ticchettio della pioggia che pian piano scemavano nel silenzio, ricominciai a parlare, questa volta iniziando con il dare un titolo al brano appena ascoltato:  Bentornati amici, bentornati dal vostro Dave Hammond e dalle note che lentamente stanno sfumando di questa “Riders on the storm” dei grandiosi The Doors, un gruppo che a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, grazie soprattutto alla sua voce, ossia a Jim Morrison, affrontavano attraverso i loro testi quegli argomenti, a volte scomodi per una certa America ancora purtroppo bigotta e perbenista, che stanotte abbiamo affrontato anche noi. Guardai per un istante il quadrante dell’ora posto nella parete di fronte alla mia postazione. Mancavano quindici minuti alle cinque. “Ci siamo” pensai, cercando di riordinare come meglio potevo tutte le mie scartoffie. Quindi ripresi a parlare:  Bene cari amici, siamo quasi giunti alla fine di questa nottata, ed è arrivato quindi il momento di raccontarvi la mia esperienza, per così dire “psichedelica”, anche se come vedremo in realtà, fu qualcosa di ancora più strano, indefinibile direi, che mi è successa quasi a conclusione del mio soggiorno a Real de Catorce. Anch’io naturalmente – continuai  un po’ da stupido, mi ero messo in testa di provare questo peyote, e dopo un paio di giorni di soggiorno in paese, avevo finalmente trovato qualcuno che mi poteva accompagnare nella ricerca di questo cactus. Questo qualcuno si chiama Eduardo, vive a Real da quando è nato, e nonostante la sua famiglia sia emigrata al completo qui nel nostro paese, lui è rimasto lì in paese, dove tira avanti con i turisti che accompagna nel deserto di Real. Eduardo mi ha spiegato molto sul peyote, insegnandomi ad esempio che in genere cresce al riparo di una pianta chiamata gobernadora, che chi lo prova deve avere una motivazione che va ben al di là della curiosità, e che l’esperienza deve essere per forza di cose guidata da qualcuno più esperto, pena spiacevoli conseguenze. Ma la cosa più importante che mi ha spiegato è che il cactus non si trova, è lui che trova te, e quindi, chi come me ha girovagato per mezza giornata nel deserto di fronte a Real, dove il peyote cresce in abbondanza, e “non si è fatto trovare” da neanche un cactus piccolo piccolo, evidentemente non è fatto per il peyote, e di conseguenza è molto meglio che rinunci a ogni suo proposito. Feci una piccolissima pausa per bermi una mezza sorsata di birra, quindi ripresi a parlare:  Vi confesso, care anime della notte che ero piuttosto deluso da una simile “sentenza” senza appello, però ciò che mi successe la nottata successiva, proprio in un momento della notte simile a questo che stiamo vivendo ora insieme, quando la notte sta per finire, anche se non è ancora finita, e il giorno sta per iniziare, anche se fa ancora fatica ad annunciarsi, mi fece capire alcune cose che anche se non del tutto chiarificatrici, mi hanno insegnato molto. Sto parlando – continuai ormai rilassatissimo – della madrugada, il periodo di tempo con cui in spagnolo si indicano le ore che precedono l’alba, in genere un lasso di tempo considerato di per sé magico, non fosse altro perché senza nessuno in giro, si possono vedere le cose in modo differente da come appaiono di giorno, forse più reali. A quell’ora difatti si può andare in giro per il paese, come ho fatto io, armati di macchina fotografica, girovagando per le sue strette viuzze, tra gli animali che stanno abbandonando il loro territorio notturno per lasciare spazio ai primi indigeni che come fantasmi sbucano dal buio dell’Ogarrio, a un altro buio, quello appunto della madrugada di Real. Si può girovagare, sperando di “rubare” qualche immagine a questo scenario così spettacolare ed effettivamente scattare qualche foto, nonostante tutti i cani, di tutte le abitazioni di Real sembrino essersi coalizzati contro i ladri di immagini che cercano di mostrare al mondo il loro paese. Certo, si può sperare, ma quando ti accorgi che hai a che fare con qualcosa che non riesci a spiegare, qualcosa indubbiamente più forte di te, che ti cancella letteralmente le fotografie che hai scattato dopo minuti e minuti di pazienti appostamenti – tanto che dopo essere ritornato al modesto albergo in cui ero ospite, ho visto le foto che avevo scattato, letteralmente “evaporare” dalla mia macchina fotografica digitale  allora capisci che forse è giusto così, Real può tranquillamente continuare a essere la mèta di relativamente pochi turisti attirati qui dal peyote e dalle suggestioni che questo villaggio sa ancora regalare. Capisci inoltre che non sempre è necessario vedere draghi colorati e aquile fosforescenti per trovare quel qualcosa che ognuno cerca dentro sé stesso, anche se alla fine la cosa che conta davvero è continuare a cercarla, proprio come ci canta Bono Vox in questa celeberrima “But i still haven’t found what i’m looking for” che già sentite in sottofondo. A questo punto la mia voce lasciò la scena alla chitarra di The Edge e alle prime strofe della canzone che scaturivano dalla potente voce di Bono Vox. Ma dopo qualche secondo, con ancora questo pezzo sul piatto, intervenni di nuovo: Bene care anime della notte, sulla madrugada ormai al termine e sulle note di questo pezzo degli U2, ringrazio Isidro López per la collaborazione tecnica, vi ringrazio per la compagnia in questo viaggio e vi do appuntamento per domani notte per un altro viaggio, perché se Bono Vox mi consente la citazione, non ho ancora trovato quello che sto cercando… Buon risveglio America.

Note:

Il racconto qui proposto, frutto in parte della mia “stupefacente” fantasia, è stato arricchito in maniera rilevante da tre brani tratti da altrettante opere non riconducibili alle mie modeste capacità letterarie. Il primo di questi brani è di uno studioso di cultura islamica, tale Rudolf Gelpke, che ha pubblicato nel 1962 per la rivista Antois la sua esperienza psichedelica, ripubblicata sul sito internet lsd.virtuale.org alla pagina tredici, mentre per il secondo brano devo ringraziare lo scrittore spagnolo Francisco Solano, che nel suo “Sotto le nuvole del Messico” pubblicato nel 2002 da Feltrinelli nella collana Traveller, racconta magnificamente la sua esperienza con i funghi. Per il terzo brano, devo invece ringraziare il compianto Carlos Castaneda, perché il racconto dell’esperienza con il peyote è tratto dal suo celeberrimo “Gli insegnamenti di don Juan” pubblicato da Rizzoli nel 1999. Per il finale invece, mi sono affidato a un brano tratto dal mio primo lavoro pubblicato, intitolato “Un foglio accartocciato”, brano che probabilmente è il più surreale di tutte e tre le precedenti esperienze descritte – anche se non necessariamente il brano più stilisticamente perfetto – perché è l’unica esperienza di cui posso essere assolutamente certo che nel suo inesplicabile e genuino surrealismo, sia accaduto davvero…

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