México Sur Real – L’ultima fuga di Pancho (senza testa) – inedito

La coppia di coyotes ha fiutato la presenza di una lince, uno splendido esemplare maschio di lince rossa adulto, una specie di felini abbastanza diffusa tra gli altopiani desertici del nord del Messico e quindi anche nello stato di Chihuahua. La lince è impegnata nella caccia che come gli altri individui della propria specie, conduce con particolare discrezione e in completa solitudine. Solo che di prede stanotte non ne è riuscita a catturare nemmeno una, se si eccetua un piccolo opossum che ha trovato già cadavere appena dopo il calar del sole. Anche i coyotes sono a caccia, pur essendo loro prevalentemente animali diurni, ma quest’anno la siccità, che da quelle parti ha colpito particolarmente tutti gli esseri viventi, li ha costretti a uscire di notte in cerca di qualcosa per riempire la pancia, visto che sono ormai tre giorni e tre notti che non mettono tra i denti un qualche tipo di carne, e quell’invitante lince potrebbe diventare proprio ciò che i coyotes desiderano: il loro pasto più suntuoso delle ultime settimane. E così, dopo averla avvistata ed essere stati individuati a loro volta dalla lince, sempre più minacciosi, i due coyotes si fanno sotto al felino che a sua volta, dopo aver valutato velocemente la situazione, e tenendo in conto che nei pur rari scontri tra coyotes e linci solitarie, nella maggior parte dei casi ad avere la peggio sono proprio le linci, decide di darsi alla fuga, più o meno come facevano i “bandoleros” solitari prima e durante la “revolución mexicana”, e come continuano a fare oggi clandestini e narcos, in fuga rispettivamente verso l’agognato nord i primi e verso l’impunità i secondi. I coyotes all’inseguimento, ringhiano e evitano gli ostacoli con rapidi scatti nervosi, mentre la lince, pur sentendone il fiato sul collo, sembra correre con una certa tranquillità. A un certo punto, quando uno dei coyotes dà l’impressione di essere pronto per compiere il balzo decisivo, una sinistra luce si sprigiona all’improvviso dal corpo stesso della lince e in un istante, l’agile felino scompare nel nulla, mentre il suo fantasma continua la solitaria fuga e i coyotes confusi, si fermano frastornati…

“Erano passati qualcosa come due anni, due paia di mesi e qualche manciata di giorni, piu o meno, dall’eliminazione del general – episodio che forse ha messo definitivamente la parola fine a quella che è stata la prima rivoluzione del XX secolo, la revolución mexicanaquando il capo dell’undicesimo battaglione di fanteria di stazza a Parral, il colonello Durazo Ruiz, mi ordinò di salire sulla sua auto. Mi portò a fare un giro, e tutto indicava che stesse per cominciare a parlare di qualcosa di molto importante. Ma non si decideva a iniziare. Poi, come se avesse finalmente trovato le parole adatte per ciò che intendeva dirmi, aprì bocca per la prima volta da quando eravamo saliti in auto, e disse: .– Senta capitano… ho ordini dall’alto di affidare a qualche mio abile sottoposto una missione molto delicata. Non dissi niente, mi limitati solo ad annuire. – C’è da trafugare la… ehm, la testa dal cadavere di Villa, e io avrei pensato a lei… Trasalii, anche se non lo diedi a vedere, ma poi d’impeto mi uscì: – Che cos’è che dovrei fare? – ben sapendo che con certe cose, in Messico, non si scherza. Il colonello ribadì l’ordine, nella tipica ottusità che avevamo noi militari – ma, anche al giorno d’oggi le cose non sono di certo migliorate – e aggiunse che mi scegliessi un caporale, e gli affidassi il compito di reclutare una squadra per svolgere la missione. Quando mi riportò in caserma, andai immediatamente a farmi una doccia, e dopo essermi rivestito, mi chiusi nel mio ufficio ordinando di non essere disturbato per nessun motivo. Ricordo che stetti… boh, forse un’ora, forse di più a riflettere su chi coinvolgere nell’operazione e a chiedermi chi volesse la testa di Villa e per farne cosa… Alla prima domanda trovai risposta, dopo aver studiato il registro che conteneva nomi, cognomi, vita e miracoli degli uomini che servivano quella caserma, nel caporale Silva, che mi sembrò il più adatto, almeno stando alla sua preparazione. Alla seconda questione invece, mi scervellai molto di più, e anche se non riusciì darmi una risposta convincente, conclusi con due ipotesi che potevano essere almeno credibili: una prendeva il nome del generale Obregón, l’altra invece parlava inglese e se ne stava a nord del Río Grande, probabilmente dentro una grande casa bianca… Per quanto invece riguardava il motivo… non trovai invece una risposta plausibile, ma solo ipotesi, e nella maggior parte dei casi, assurde… Gli ordini però erano ordini, e quindi andavano eseguiti, per cui già l’indomani mattina ne avrei parlato con il caporale Silva. Per quel giorno invece, me ne sarei stato rinchiuso in ufficio a scolarmi da solo quasi una bottiglia di tequila… L’Indomani, ancora un po’ “fuori forma” per i postumi della sbornia del giorno prima, convocai il caporale Silva e dopo qualche giro di parole gli spiegai la situazione, ordinandogli di sondare il terreno tra la truppa in cerca degli uomini che fossero disposti a imbarcarsi in una missione del genere. Lui, dopo qualche attimo di sbandamento, mi rispose che avrebbe iniziato immediatamente, già nella tarda mattinata, a lavorare al caso, non specificando però a quale tarda mattinata si riferisse, visto che rapidamente arrivò la fine dell’anno senza che si facesse un solo passo avanti nella questione. Ai primi dell’anno venni convocato da Durazo per informarlo su come procedeva l’organizzazione della cosa: cercai di prenderla larga, adduccendo mezze scuse e impedimenti vari, non senza aver maledetto mentalmente il caporale Silva, la sua inettitudine e me stesso per non essergli stato sufficientemente con il fiato sul collo. Durazo alla fin fine fu anche abbastanza magnanimo “consigliandomi” solo di conferire l’incarico a un altro mio uomo possibilmente più affidabile di quel lavativo di Silva. Alla fine del colloquio tirai un sospiro di sollievo, ben conoscendo quanto severo e inflessibile potesse essere Durazo con i sottoposti non ligi al dovere, e appena uscii dal suo ufficio, feci convocare il caporale Figueroa, deciso ad affidare a lui l’incarico. Gli spiegai per bene tutta la faccenda, raccomandadogli di svolgere il tutto in tempi brevi e con la massima discrezione. Ciononostante, qualche tempo dopo, Durazo mi riconvocò per sapere come andavano le cose, e visto che anche questa volta il tutto pareva nuovamente impantanato nelle melme del più classico immobilismo di noi militari, da sempre abituati ad affidare ai sottoposti oneri e responsabilità, per alla fine non arrivare a nessun altro risultato che non sia il lasciar che la questione si risolva da sola, alla fine mi diede un vero e proprio ultimatum: se nel giro di pochi giorni non si fosse proceduto a compiere ciò che veniva richiesto, occorreva “rimuovere” ogni traccia di quella missione, dove per tracce si intendevano coloro i quali erano a conoscenza della cosa, quindi per primi Silva e Figueroa… Passai la comunicazione a Figueroa, e questa volta sì, in meno di quarantotto ore si passò all’azione… Il tutto avvenne abbastanza rapidamente nell’arco temporale della realtà ordinaria, ma parve quasi un’eternità in quella che percepimmo, almeno a livello personale. Figueroa penetrò all’interno del cimitero con una squadra di cinque uomini, lui compreso, in piena notte. Io ero all’esterno, e altri due sergenti di cui ignoravo la presenza, bloccavano le strade che circondavano il campo santo. Durazo, saggiamente, se ne andò a Salaices, dove possedeva un rancho in cui faceva lavorare, senza pagarli, i suoi soldati. La squadra di Figueroa aveva portato dell’alcool per disinfetarsi, ma uno dei soldati, evidentemente spaventato dal fantasma di Pancho, se lo scolò non lasciandone una sola goccia per ciò che era stato portato. Il nervosismo e la paura si insinuarono ben presto tra quegli uomini facendogli compiere una seria di scelleratezze che completarono degnamente quella missione di per sè senza senso, prima tra tutte quella di portarsi l’alcool per disinfetarsi, dato che il cadavere di Pancho Villa era stato imbalsamato e quindi, essendo passati quasi tre anni dalla sua morte, non c’era oramai nessun pericolo. Comunque tra le stronzate che quegli uomini compirono, ad esempio, si può ricordare che nella confusione uno dei soldati si ferì, perdendo anche una discreta quantità di sangue, con il coltello con cui avrebbero tagliato la testa al cadavere del general. Anche la scelta della notte per compiere quella missione non fu delle più felici, considerando che nei giorni precedenti aveva piovuto e quella notte il terreno del cimitero era piuttosto fangoso, tanto che la mattina successiva alla profanazione, le orme dei scarponi militari, evidentemente in uso solo ai soldati, erano ben visibili a chiunque, tranne a chi avrebbe dovuto indagare. E a proposito di indagini… be’, lo so che sembrerebbe incredibile, ma le prime indagine vennero svolte niente meno che… dal custode del cimitero e dai giardinieri, questo perché la polizia pareva inizialmente piuttosto spaventata da quello che avrebbe potuto scoprire se l’indagine fosse stata svolta celermente… Le indagini, e mi riferisco a quelle “serie”, condotte dagli inquirenti, che in realtà di serio ebbero ben poco, puntarono l’attenzione di volta in volta su “attori” talvolta secondari nell’epopea “villista”, talvolta invece di primaria importanza, e non tanto nella vita di Villa, quanto nella Storia nazionale messicana. E così se il gringo Emil Holmdahl e il messicano Alberto Corral, cugino di una delle mogli tra le più “legittime” di Pancho, ossia Luz Corral, possono essere considerati appartenenti più alla prima categoria tra quelle citate, altri come il generale Arnulfo R. Gómez o addirittura come il presidente Plutarco Elías Calles, evidentemente mandanti, nel caso, possono essere inclusi tra gli appartenenti alla seconda categoria, con la curiosa ipotesi, non inverosimile del tutto, della setta Skull and Bones che possiederebbe il teschio di Villa, che secondo questa versione sarebbe stata venduta da Holmdahl a tale Frank Brophy, laureato di Yale e amico di Preston Bush, nonno di George W. e membro, come il nipote della setta. Della testa di Villa a questo punto se ne perdono le tracce, o meglio, ne spuntano anche troppe, tutte aventi come destino un qualche punto al di là o al di qua di quella che diverrà la frontiera per eccellenza, quella tra nord e sud del mondo, quella cioè tra il Messico e il suo ingombrante vicino, gli stati Uniti d’America. Sembrerebbe comunque, ma le certezze in questa storia sono francamente poche, che la testa, dopo essere stata custodita da Durazo sotto il proprio letto in caserma, avvolta in una camicia e posta in una cesta di vimini, sia stata portata, su mio ordine, ma sollecitato dallo stesso Durazo, nelle vicinanze del suo rancho, e lì, riposta in una cassetta di legno e sigillata, sia stata interrata, sempre che il soldato a cui era stato assegnato l’ordine, lo abbia effettivamente eseguito, visto che fece tutto da solo, ma se eseguì davvero l’ordine lo sa solo lui, e il segreto se lo è portato in tomba. Comunque, nel punto in cui suppostamente sarebbe stata interrata la testa di Villa, oggi sorge una scuola media intitolata proprio a Pancho. Una bella rinvincita per lui che da bambino non poté frequentare la scuola, ma nei pochi mesi in cui fu governatore del Chihuahua ne fece costruire a decine. Ma la storia dei poveri resti di Villa non finisce qui, perché una delle vedove di Pancho, questa volta Austreberta Rentería, per tutelare la memoria del general ed evitare episodi come quello che io ho guidato, pensò bene di ricorrere a un espediente che si dice le sia stato suggerito direttamente dal fantasma di Pancho in sogno, o almeno ciò è una delle versioni che hanno dato a questa storia. Così aiutata nell’operazione da Pedro Alvarado, un proprietario di miniere amico di Villa fin dai tempi della rivoluzione, qualche anno dopo spostò ciò che restava del Centauro del norte in un loculo che fino ad allora aveva custodito i resti di una donna piuttosto giovane, morta di cancro all’ospedale di Parral. Ebbene, a fine anni ’70, quando qualcuno al governo decise di spostare i resti mortali di Villa al monumento alla revolución di Città del Messico, l’esercito andò a prelevarli proprio dalla tomba dove invece di Pancho, riposavano i resti di questa donna, nonostante qualcuno li avesse pure avvertiti che quello non era lo scheletro di Villa, tesi suffragata da un esame condotto da un ginecologo che dichiarò che quelle ossa, con particolare riferimento alla zona pelvica, erano indubbiamente femminili. L’esercito, nella tipica logica di noi militari, non fece caso né alla “soffiata” né all’esame medico: gli ordini erano ordini e andavano eseguiti. Oggi dunque, grazie all’evidente miopia di quegli uomini, nel monumento alla rivoluzione, assieme ai resti di Calles, Madero e Carranza, riposano le spoglie di un’anonima donna del depresso Messico post-rivoluzionario. Una rivincita dunque, anche se postuma, per una rivoluzione sostanzialmente tradita. Il mio fantasma invece, il fantasma di José Elpidio Garcilazo, si ritrova a vagare in una sorta di “terra di nessuno” a raccontare a vivi e morti questa storia, una specie di condanna perpetua per le colpe di cui mi sono ahimé macchiato.

Nell’altipiano desertico, costellato di cactus che a migliaia spuntano da questa terra bruciata dal sole, continua imperterrita la corsa del fantasma della lince rossa, anche se ora non c’è nessun inseguitore a minacciarla. L’aria, nonostante la lince, o meglio il suo fantasma, stia appunto correndo, sembra rarefatta, quasi immobile e la scena stessa, complice la naturale desolazione del luogo, appare come cristalizzata in un istante che si ripete immutato, all’infinito. Solo ogni tanto, a interrompere la monotonia del paesaggio, nell’immensità del cielo, scivola maestosa qualche aquila solitaria a scrutare la silenziosa terra sottostante. All’improvviso però, un ripetuto rumore cupo, per ora appena udibile, richiama l’attenzione della lince, tanto che questa si ferma e guardinga, si mette a fiutare l’aria. Il rumore assomiglia a un rullare nervoso contro i tom di una batteria e aumenta man mano che passano i secondi finché, da dietro un grande “mezquite” non sbuca una splendida giumenta bruna in sella alla quale c’è un uomo… anzi no, non è un uomo, bensì un fantasma… Quando i due giungono praticamente al cospetto della lince, l’ectoplasma tira a sé le redini della giumenta ottenendo che il sauro si alzi sulle zampe posteriori. L’uomo allora – pardon, il suo fantasma –, dopo aver emesso un rauco grido da “arriero”, alza la mano sinistra, la chiude in pugno e dopo aver gridato “¡Viva México y la División del Norte, cabrones!”, ripiombando in posizione orizzontale, dopo che la giumenta è ritornata con tutti i quattro zoccoli a terra, scalpitando però in attesa di partire di nuovo al galoppo, guarda la lince dritta negli occhi e sorridendole pensa. “todavía no ha nacido el güey que me atrape…” Fa poi schioccare le redini che tiene tra le mani, facendo scattare tra una nuvola di polvere la sua giumenta, che forse è anch’essa solo un fantasma, mentre la lince immobile, li guarda scomparire velocemente oltre l’orizzonte.

Note:

Questo primo inedito – totalmente inedito visto che il prossimo capitolo in realtà è già stato pubblicato nel mio primo libro “Un foglio accartocciato” – racconta la vera storia, attraverso la voce del fantasma di José Elpidio Garcilazo, capitano nell’esercito federale messicano di stazza a Parral, stato del Chihuahua, nell’immediato post-rivoluzione, della profanazione del cadavere di Pancho Villa e della relativa decapitazione, nonché della tumulazione dei supposti resti del “Centauro del Norte” – che in realtà non è mai avvenuta, come si racconta nelle righe precedenti – presso il monumento alla rivoluzione sito a Città del Messico – dove tra l’altro riposano anche i resti di Calles e Carranza, che per la cronaca non furono certo buoni amici di Villa, motivo che ha spinto a credere buona parte degli abitanti di Città del Messico, che questa sia la causa principale dei terremoti che scuotono la capitale. Il racconto, di per sé surreale nella tipica accezione messicana del termine, è stato arricchito da un altro racconto piuttosto surreale che secondo me, identificando nella lince rossa Pancho Villa, e nei due coyotes tutti i suoi infimi nemici, racconta surrealmente appunto, come il “Centauro del Norte” sia riuscito a sfuggire per l’ennesima volta ai suoi nemici di sempre, e in generale al sistema, persino dopo la morte, e prendendosi pure qualche piccola rivincita…        

Invito, come sempre, tutte/i quelle/i che visiteranno le pagine di questo progetto che altro non è che la pubblicazione on-line di “México Sur Real”, a cliccare sui banner pubblicitari presenti su questo e sugli altri articoli presenti e futuri. E’ un piccolo fastidio (io stesso non lo farei mai, se non fosse per finanziare in qualche modo un’attività che è principalmente una passione) ma può essere utile per chi, come me, scrive. Ricordo agli attenti lettori inoltre che il libro completo in cartaceo, è richiedibile – al costo di 14 euro + 1.28 euro (spedizione ordinaria) o 3.63 euro (spedizione raccomandata) – così come “Venti pirati. Storie di venti pirati e di venti di libertà” (15 euro + 1.28 euro in spedizione ordinaria o 3.63 euro spedizione raccomandata), all’indirizzo: [email protected]

Prossimamente verrà pubblicato su questo blog “Sorrow” la continuazione di “Scar Tissue”, un articolo pubblicato qualche mese fa sempre sul blog. Questi due articoli, che altro non sono che due capitoli di un progetto che ho chiamato “Deserto del rock”, potrebbero, assieme ad altri due capitoli intitolati “Riders on the storm” e “Stylo”, trasformarsi in un mini-romanzo in cartaceo o essere pubblicati esclusivamente su questo blog… A presto novità al riguardo…

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