Riders on the storm

Erano forse passate almeno un paio d’ore da quando mi ero sorpreso a bordo della nostra auto – senza sapere come c’ero salito sopra – dopo gli strani avvenimenti mattutini in quella caffetteria nel deserto, anche se l’hashish consumato, effettivamente, poteva aver dilatato artificialmente quel lasso di tempo. Le scure nubi che avevamo visto all’orizzonte qualche ora prima, adesso c’erano sopra, minacciando di scaricare sulle nostre teste tutta la pioggia che non era caduta da queste parti in chissà quanto tempo. In lontananza qualche fulmine, seguito dal cupo boato del relativo tuono, richiamò la nostra attenzione, mentre un serpente nascosto tra le sterpaglie, senza che ce ne rendessimo conto ovviamente, al nostro passaggio sollevò la testa, e sibilò estraendo viscidamente la lunga lingua biforcuta. Poco prima di giungere a un incrocio, scorgemmo qualcosa. Rallentammo e avvicinandoci ci rendemmo conto della situazione: c’era stato un incidente. Accanto a un pick-up dal colore indefinibile, delle donne indiane piangevano disperate. Notai un vecchio indiano sanguinante, con gli occhi chiusi, probabilmente morto. La scena quasi si fermò, e fu come se un’oscura entità prendesse possesso del mio più profondo Io. “Indians scattered on dawn’s highway, bleeding/ Ghosts crowd the young child’s fragile eggshell mind” annunciò una misteriosa voce la cui provenienza non riuscii a identificare, mentre uno degli agenti di polizia intervenuti sul posto ci faceva segno di toglierci dai piedi. Una flebile melodia prodotta da un piccolo organo, un Vox Continental probabilmente, incominciò un po’ surrealmente ad accompagnare i tuoni che seguivano lo scaricarsi a terra dei fulmini. E poi incominciò a piovere. Quando qualche secondo più tardi mi resi finalmente conto che la musica dell’organo e la voce che avevo sentito precedentemente nasceva dalla nostra radio, ed era niente po’ po’ di meno che “Riders on the storm” dei Doors e un verso della poesia di Jim Morrison “Dawn’s highway” rispettivamente, mi sentii nuovamente, per la seconda volta in quella strana avventura, in uno stato di grazia prossimo all’estasi, anche se l’episodio dell’indiano morto mi aveva un po’ turbato. “Riders on the storm/ Riders on the storm/ Into this house we’re born/ Into this world we’re thrown/ Like a dog without a bone/ An actor out on loan/ Riders on the storm/ There’s a killer on the road…” E mentre la voce di Morrison si espandeva per tutto l’altipiano e noi all’interno della nostra decappottabile eravamo oramai completamente fradici per la pioggia, in lontananza notammo un puntino sul bordo della strada che in pochi secondi si rivelò essere un autostoppista che chiedeva un passaggio. Lo oltrepassammo salutandolo, con le ultime note di “Riders on the storm” che scemavano velocemente, un “yeah” prolungato e sommesso di Esteban e la pioggia e i tuoni della realtà che si sovrapponevano a quelli incisi nel nastro.

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