Ultras come stile di vita

Se c’è una categoria umana, tra i gruppi di aggregazione sociale, che possiede già nel DNA i geni dell’anticonformismo e dell’opposizione all’omogeneizzazione che impera nella società moderna, quella categoria sono senz’altro i tanto vituperati ultras, i tifosi di calcio – ma non solo –, più accesi e passionali, capaci di creare dal nulla o quasi, addirittura uno stile di vita. La categoria certo, tra le tante crisi vissute, nel tempo ha finito per assomigliare ad altre categorie meno “estreme” – e qui il concetto di estremismo andrebbe approfondito, considerando che l’odierna società giudica estremista chi, come ad esempio gli anarchici, promuove la solidarietà e la libertà tra le persone, e per contro ritiene nella norma chi antepone dei meri interessi economici alle più elementari forme di libertà – andando a perdere, in parte, le proprie caratteristiche e uniformandosi al pensiero unico che neanche nazismo e comunismo erano riusciti a realizzare, ma che a quanto sembra, questo capitalismo del tutt’altro che libero mercato, in generale è riuscito a imporre, prendendo il peggio da queste due ideologie e dando addirittura l’illusione, ai più, della libertà attraverso quella cosa chiamata democrazia, che poi altro non è che il regime ben poco libertario del più forte – la maggioranza – sul più debole. Il movimento ultras, come forse molti sapranno, in Italia compare alla fine degli anni ’60, ma è solo durante la decade successiva che si sviluppa e cresce, sicuramente anche sulla scia dei movimenti politici e studenteschi che infiammarono quel periodo, e se si pensa che il passaggio di alcuni di questi ultimi alla lotta armata venne “pilotata” e favorita dallo stato democratico – si veda la strategia della tensione – per delegittimare le pretese di cambiamento che parte della società esigeva, vengono i brividi sulla schiena a ripensare alla storia del variegato movimento ultras in Italia, sicuramente ancor più manovrabile dei gruppi di aggregazione politica, per lo più giovanili, di quel periodo. Comunque sia, ho avuto la fortuna, nel corso della mia vita, di conoscere questo mondo che i più “illuminati” pensatori odierni giudicano come un fenomeno con “anche” degli aspetti positivi – mentre i più bacchettoni condannano seccamente senza mezzi termini. E se tuttavia questo mondo l’ho conosciuto in un periodo, per certi versi, tra i più bui del movimento – la fine degli anni ’80 e tutta la decade dei ’90, periodo caratterizzato, tra l’altro, dall’esplosione del fenomeno razzismo anche nelle curve –, per altri motivi invece posso dire che quegli anni sono stati pure particolarmente positivi, non fosse altro  perché legati “all’età d’oro” di un gruppo tra i più originali e particolari nel vasto panorama ultras italiano. Sto parlando infatti degli Ultras Unione VeneziaMestre 1987, il gruppo ultrà che proprio da quell’anno – l’ottantasette per molti ragazzi della mia generazione, me compreso, nell’intera provincia di Venezia, è diventato così importante da venir considerato quasi come se fosse la data di una “seconda” nascita –, non si è semplicemente messo alla guida di quella che era l’inesistente tifoseria di una squadra che fino a pochi mesi prima non c’era e che ben in pochi sarebbero riusciti perfino a concepire, non ha solo riempito il vuoto incenerito di quello che era stato il risultato della fusione tra due squadre e due tifoserie, quella veneziana e quella mestrina, che prima di certo non si amavano, ma ha dato al concetto stesso di “Unione”, attraverso il consenso, la partecipazione, l’impegno e la dedizione, il significato di inclusione in una comunità – quella unionista appunto – a prescindere dal fatto che tu vivessi al di là o al di qua di un ponte, che il tuo accento fosse più o meno “campagnolo”, che la tua pelle fosse più o meno scura, o che fossi nato in laguna, in “campagna”, in un’altra regione o addirittura in un’altra nazione… Concetti quasi “rivoluzionari” in quel periodo, se si considera che proprio allora l’ultra-destra calava le sue mani sulle curve italiane, e tifoserie un tempo tradizionalmente di sinistra incominciavano a virare pian piano in direzione opposta, contribuendo in questo modo, come si legge nel libro di Andrea Ferreri “Ultras, i ribelli del calcio: quarant’anni di antagonismo e passione” a incrementare “l’asfissiante militarizzazione degli stadi, facendo aumentare i controlli, il numero degli agenti, e moltiplicare le indagini da parte della Digos”. Certo, gli unionisti non erano i soli – viene da pensare ai fratelli modenesi e cosentini, a una parte della tifoseria dell’Atalanta, ai livornesi piuttosto che ai perugini, agli ultras dell’Ancona o ai ternani, ai pisani, ma anche ai rivali del Vicenza, ai fiorentini, ai salernitani e molti altri ancora –, ma il loro essere contro quella deriva era qualcosa di più che opporsi politicamente al fenomeno, era la pratica dell’unione inclusiva quotidiana, fianco a fianco con gli esclusi, gli emarginati, gli immigrati e con chiunque lottasse per i propri diritti, che fosse poi veneziano, mestrino, immigrato, della provincia piuttosto che un indio chiapaneco o un rappresentante del popolo sahrawi. Era divertimento, piacere di fare le cose assieme, impegno e ironia – come dimenticare, a proposito, gli irriverenti e beffardi “buu, buu, buu” con cui la Curva Sud sbeffeggiò l’etnicamente “bianchissimo” Frey, portiere allora del Verona (che sorpreso, riuscì a trattenere a stento una risata), la cui tifoseria è tristemente famosa per atteggiamenti apertamente razzisti come i rivoltanti ululati (questi, ben poco ironici) con cui venivano e vengono accolti i giocatori di colore delle squadre avversarie – e ricordo ancora molto bene come simili atteggiamenti venissero tenuti in grande considerazione da tifoserie importanti come i milanisti o i romanisti, tanto che con questi ultimi, nella prima trasferta nella capitale dopo il ritorno in A, vi fu pure uno scambio di sciarpe con i tifosi della Nord. Poi, nel 2006 gli Ultras Unione si sciolgono, lacerati da diatribe interne di stampo politico comuni, prima e dopo tale data, a molte curve italiane (le famigerate infiltrazioni fascistoidi il cui unico scopo sembra quello di riproporre la strategia della tensione in versione curvaiola, con le stesse finalità), a Venezia come in tutti gli stadi italiani si inaspriscono le misure repressive, la parola ultras perde pian piano il suo vero significato e il calcio-business diventa un prodotto da vendere al tifoso passivo e alienato. E allora, a questo punto, ha ancora un significato l’essere ultrà? Ecco, il punto sembra essere proprio questo: forse, e sottolineo forse, non è l’essere ultrà lo sbaglio, ma lo è il contesto – quel calcio miliardario o comunque troppo distante dalla realtà dei suoi fans più sfegatati, attorno alla quale il movimento è cresciuto. Lo sbaglio è il razzismo, non gli sfottò campanilistici. Lo sbaglio è stare dalla parte dei potenti – magari senza esserne consapevoli –, di quelli che ci vogliono divisi, perché così ci controllano meglio, invece che dalla parte da cui gli ultras nascono, quindi dalla parte della curva, della strada, della comunità civile, lo sbaglio è la violenza, non la giusta e legittima auto-difesa… E allora, in un calcio malato come questo, ha senso pure l’essere ultrà senza un gruppo alle spalle con tanto di striscione e, per assurdo, senza una squadra da sostenere. E ha un senso pure esserlo oltre i quarant’anni, oltre le mode, oltre la repressione e la politica. Perché ultras in fondo è uno stile di vita, la ribellione portata semplicemente e meravigliosamente oltre, come da nome: ultras…

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