Sorrow

Ad un certo punto Esteban se ne uscì con una frase che un po’ ci sorprese, anche se da lui, lo avevamo oramai imparato bene, c’era da aspettarsi di tutto. – Paisanos, da queste parti conosco un posticino, per far colazione, da leccarsi i baffi. E poi c’è una cameriera messicana con cui, qualche mese fa, ho fatto “un po’ di sana ginnastica d’amore” che ancora me ne ricordo… Nessuno di noi, naturalmente, gli fece notare che aveva appena finito di scolarsi una bottiglia di tequila da solo, che eravamo nel mezzo di un deserto costellato di cactus e cespugli rinsecchiti e soprattutto che per tutti noi era un’autentica novità che lui avesse avuto una ragazza oltre a quel suo grande amore con cui, tempo fa, praticamente in un’altra vita, aveva anche progettato un qualche tipo di convivenza. La sorpresa maggiore però fu quando, con il sole che ormai incominciava a staccarsi dalla linea dell’orizzonte, avvistammo davvero una costruzione bassa, con una qualche insegna da bar per camionisti, che Esteban ci indicò entusiasticamente come il posto di cui ci aveva parlato. Quando entrammo dentro al bar c’era già qualche avventore, nonostante fosse davvero presto. Il poco personale presente, che aveva appena preso servizio o che stava per finire il turno notturno, era intento a preparare tavoli e colazioni e quasi non badò all’entrata della nostra sparuta compagnia. Esteban si diresse verso la prima cameriera che scorse a chiedere di questa sua ragazza, una certa Carmela, e quando da chissà dove lei spuntò, gli occhietti spenti del nostro grande e grosso amico gli si illuminarono, come se avesse visto la Virgen de Guadalupe. – Carmencita ¿cómo está mi querida? – chiese festante Esteban alla sua bella, una donnina di media statura di cui risaltavano i grandi occhi color caffè. – E tu chi mai saresti? – le chiese lei abbottonandosi la camicetta, che sul momento non ero riuscito a capire per quale motivo fosse stata sbottonata. – Pues, ¿cómo paisana no te acuerdas de mí? La donna, passò a lasciarsi i capelli, non ponendo poi molta attenzione a ciò che diceva Esteban. Alle sue spalle uscì, un po’ defilato e per fortuna non notato dal mio amico, un uomo intento a finir di vestirsi. Capii in quel momento il motivo della camicetta sbottonata e mi apparve finalmente chiara tutta la faccenda di questo secondo “grande amore” di Esteban. Poverino, non aveva capito che la sua bella lo aveva amato solo per i soldi che lui gli aveva portato… –  Oh sì che mi ricordo di te… – rispose lei –…tu sei… Juan, non è vero? Esteban questa volta rimase un po’ perplesso, ma ascoltando più il cuore che il cervello, sorridendo come un ebete, disse: – Come Juan? No mi querida io sono Esteban, il tuo caro Esteban… Lei scarto un chewing gum, se lo portò alla bocca e disse, con un sorriso di circostanza che come un lampo le rischiarò il volto per un attimo: – Oh già… Esteban, ehm… il mio caro Esteban… come stai? Esteban, entusiasta per questo “riconoscimento” seppur leggermente tardivo, ancora una volta ascoltò il cuore, non vedendo la realtà. Stettero un po’ a parlare, ma poi lei dovette continuare con il suo lavoro, anche se Esteban parve non volerlo capire, visto che la seguiva dovunque lei si spostasse. Noi intanto ci guardammo un po’ intorno cercando qualche cosa da fare. Jack, che un attimo prima ci aveva raggiunto, mi indicò con lo sguardo e un leggero movimento della testa una chitarra elettrica che aveva intravisto, appena entrato, di fianco al bancone dove venivano servite le colazioni: intendeva suonarla. Chiesi a quello che sembrava il proprietario, un grassone sudaticcio sulla cinquantina, se il mio amico avesse potuto strimpellarla per un po’, e dato che l’uomo socchiuse solo gli occhi e si voltò a prendere qualcosa di simile a delle fatture o cose del genere, sia io che Jack lo prendemmo per un assenso… Jack quindi, dopo essersi aggiustato il capello sulla testa, penetrandovi ancor di più se possibile, armeggiò tra l’amplificatore, il selettore del pickup, il jack d’uscita e le manopole di tono e volume. Poi, quando tutto sembrò pronto, collegò la chitarra all’ampli facendone uscire, per un momento, un fastidioso fischio stridulo, subito controllato attraverso il cursore del volume. Per un istante il silenzio avvolse lo spazio vuoto tra il logoro pavimento e il soffitto e tra lo scarno arredamento e il muro mezzo scrostato. Poi, quando la chitarra, sollecitata dal plettro e dalle dita leggere e affusolate di Jack, incominciò a miagolare prima, e a ruggire successivamente le prime note di “Sorrow“, i pochi camionisti presenti, le cameriere e noi stessi restammo, per un attimo cristallizzato in un tempo apparentemente perpetuo, letteralmente a bocca aperta, e anche se non c’era nessuno al microfono, perché in effetti sembrava non esserci un microfono, le parole uscirono da sole lo stesso: “The sweet smell of great sorrow lies over the land/ plumes of smoke rise and merge into the leaden sky/ a man lies and dreams of green fields rivers/ but awakes to a morning with no reason for waking.” La già di per sé lunga intro venne ulteriormente allungata dalle infinite distorsioni che Jack amava provocare, fino a che il ruggire della chitarra, non tornò ad assomigliare al fischio elettrico – anche se ora più prolungato – di quando, qualche minuto prima, aveva collegato chitarra ad ampli. Con mani e braccia in preda a un insistente tremore, Jack gettò a terra la chitarra per poi rovesciare, con un rabbioso calcio anche l’amplificatore, che emise un insistente rantolo distorto prima di tacere. Le sue mani ancora tremavano quando, dopo pochi istanti, come in preda a chissà quale paranoia, angosciato si sorprese a fissarsele, apparentemente non potendole controllare. Uscì di getto, sbattendo la porta dietro a sé. “Che cazzo gli sarà preso?” chiesi sconcertato a Danny che non sapeva che dire, come me d’altronde. Mi precipitai fuori, seguendolo e una volta uscito lo ritrovai tranquillamente seduto sulla piccola scalinata, appena fuori dal locale, che guardava il nulla davanti a sé. – Jack, tutto bene? – gli chiesi cercando di dissimulare un po’ l’ansia che probabilmente trasmettevo. – Certo – rispose lui, come se fosse la cosa più scontata di questo mondo, e forse lo era davvero. Non so bene cosa successe dopo, fatto sta che chiusi per un attimo gli occhi, e l’attimo dopo, riaprendoli, mi sorpresi seduto sul sedile posteriore della nostra Cadillac Eldorado, guidata questa volta da Jack. Nello stereo andava, proprio in quel momento, guarda un po’, la seconda strofa di “Sorrow” con la perentoria voce di David Gilmour che cantava: “He’s haunted by the memory of a lost paradise/ In his youth or a dream he can’t be precise/ He’s chained forever to a world that’s departed/ It’s not enough it’s not enough… E mentre “Sorrow” lasciava, al nostro passaggio, una scia di note e versi, qualcuno di noi incominciò a far girare un bel po’ di hashish dentro l’abitacolo, con il sole che fuori calcinava il paesaggio, anche se là in fondo, sulla linea dell’orizzonte, un grumo di nubi nere, minaccioso, pareva aspettarci. 

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