Disperato, alcoolico e corsaro stomp (reprise)

– A osservarlo da qui, sdraiato su un’amaca stesa tra le palme che orlano questa spiaggia dimenticata da Dio, si ha una strana impressione, quasi che questo sfolgorante mare, reso incandescente dal feroce sole del tardo pomeriggio della zona atlantica del Nicaragua in cui mi trovo, stia, in un’assurda visione surreale, andando a fuoco, visto quella sorta di fumo che si leva in lontananza tra le onde, e tenendo in conto che l’effetto dell’abbondante dozzina di bottiglie di birra Toña, che giacciono vuote sulla bianca sabbia arroventata, potrebbero anche trarre in inganno. Non so come mi sia venuta in mente ‘sta storia, probabilmente le birre centrano qualcosa, insieme al mio status di vagabondo ormai cronico che si avvicina di molto all’attività piratesca di questo personaggio che sembra abbia dato il nome alla cittadina da cui stamattina, appena dopo l’alba, ho rimediato un passaggio a bordo di un peschereccio. Dopo una traversata da paura ho finalmente messo piede su quest’isola tutta spiagge di sabbia bianca, mare color turchese, palmeti, barriere coralline e ritmi di vita rallentata, un pezzetto di terra ammollo nel Mar dei Caraibi che chiamano Little Corn Island oppure Isla del Maíz, a secondo dell’appartenenza etnica di chi ne parla, visto che da queste parti si parla di più l’inglese che lo spagnolo, nonostante quest’ultima sia la lingua ufficiale. Il personaggio in questione si chiamava Blauvelt oppure Bleeveldt o ancora Blawfelts, a seconda della fonte, e non è molto ciò che si sa di lui, neanche il nome di battesimo sembra certo, qualcuno gli affibbia un semplice Albert, mentre altri lo rendono più esotico, almeno alle orecchie di quanti vivono da queste parti, con un ben più complicato Willem Albertse, anche se alla fine è molto più probabile che siano rispettivamente padre e figlio, e che ambedue abbiano intrapreso nelle loro rispettive vite, la “carriera” di corsari. Non so, magari ora mi confondo, però ‘sta storia del figlio non mi convince, perché mi sembra di aver letto da qualche parte che invece Albert, aveva sì un figlio che però viveva a Londra assieme alla madre Dorothy, e che si chiamava Anthony. Boh, comunque sia, questa storia mi sta intrigando e non poco, e mentre penso a questo un gabbiano si volta a guardarmi un istante, mentre volteggia sopra il mare, probabilmente pensando di trovarsi di fronte a un altro “pinche güero” che si è bevuto il cervello. “Eh no, maledetto volatile” penso io, “quello che si è bevuto il cervello sei tu”, continuo nel mio delirio alcoolico “e poi non è mica normale per un gabbiano pensare di queste cose prettamente umane” concludo nel mio ragionamento interiore. – La storia comunque, non ha un inizio preciso… be’ presumo che inizi con la nascita di questo Albert o come diavolo si chiamasse, ma non ricordo di aver mai letto nulla sulla sua data di nascita, resta comunque il fatto che attorno al 1640 il nostro eroe si ritrova a navigare per nientepopodimeno che la West-Indische Compagnie, una compagnia di furfanti travestiti da mercanti e commercianti cui il nostro Blauvelt legò per qualche tempo il suo nome. Poi, quattro anni dopo, finalmente Albert incomincia a navigare, e per certo a depredare, con una nave propria tra le placide acque del Mar dei Caraibi, spostandosi prevalentemente tra quella che oggi è conosciuta come Bluefields Bay, una baia della Giamaica sudoccidentale che fungeva da sua base operativa e che è abbastanza chiaro, ha da lui preso il nome, la zona della costa del Nicaragua sudorientale dove ora mi trovo io, e dove nei decenni che seguirono a quegli anni fu fondata Bluefields, e l’insediamento olandese in terra nordamericana, conosciuto allora con il nome di Nieuw-Amsterdam, ma che più tardi sarebbe stato ribattezzato New York dagli inglesi. La nave, una fregata francese di nome “La Garce” la cui traduzione potrebbe essere “la ragazza capricciosa” o più volgarmente “la ragazza stronza” fu presto notata, non solo da quelli che ne subivano per così dire, il compito per cui era stata acquistata (o rubata, non si sa con precisione) da Blauvelt, ma anche dalla già citata West-Indische Compagnie che nel 1646 la prende, assieme a ciurma e comandante naturalmente, sotto la sua ala protettrice, facendone cioè una della tante imbarcazioni corsare, con regolare “lettera di corsa” ufficiale autorizzata dal principe delle Province Unite d’Olanda, Guglielmo II d’Orange, per l’attività corsara appunto nel Mar dei Caraibi e non solo. Uno strano vento di libeccio si alza all’improvviso dopo queste parole, che francamente non so più se sono parole oppure pensieri, e rimbalzano nella mia testa. Non so spiegarmi neanche il perché sarebbe strano ‘sto vento, forse perché fino ad adesso c’era solo una leggerissima brezza che neanche riusciva a smuovere seriamente le chiome delle palme di questa spiaggia, o forse perché c’è adesso uno strano rumore, quasi un rombo cupo che sembra nascermi da dentro il cervello, ma che invece, nel tramonto che va materializzandosi davanti ai miei occhi, è il fuorigiri di un motore di una qualche velocissima lancia dei “narcos” inseguiti da chissà quale autorità; in fondo l’isola di San Andrés è lì, a un tiro di schioppo, ed è già territorio colombiano, e le connessioni con la Florida di certo non mancano. E a proposito dell’isola di San Andrés, considerata da tutti i consumatori di “bamba” come l’isola principe dello sballo visto che lì, grazie alla relativa vicinanza con Colombia e Florida, di roba ne passa parecchia e quindi i prezzi sono di molto più bassi rispetto alla destinazione finale – fino a pochi anni fa c’era addirittura un volo diretto Milano-San Andrés che portava settimanalmente in questa isola manager, colletti bianchi e imprenditori della Milano “bene” che alla neve di Cortina preferiva quella che cade a tonnellate in quell’isola, ma per assurdo, non c’è un volo diretto per Città del Messico – mi viene in mente un episodio che mi hanno raccontato qualche giorno fa e che ho potuto verificare sfogliando un vecchio quotidiano colombiano che leggevo l’altro ieri dal barbiere. In un giorno imprecisato di settembre di un paio di anni fa gli abitanti di San Andrés facevano la “siesta” mentre i turisti “da coca” erano intenti a recuperare le forze in attesa dello sballo della notte successiva. A un certo punto il rumore di un incidente e un camion che si ribalta in pieno centro, fanno svegliare gli abitanti del quartiere. Alcuni si affacciano e non appena notano che il carico che ha “inondato” la carreggiata non è farina bensì cocaina, e per di più di purissima qualità, decidono di interrompere il pisolino e di scendere in strada. A questo punto le testimonianze dei protagonisti dell’insolito episodio raccolte dal quotidiano si fanno divergenti ed è difficile dire chi ne abbia raccolta un chilo, chi due e chi tre prima dell’arrivo della polizia, un quarto d’ora dopo il ribaltamento del carico miliardario. Qualcosa di simile insomma alla storia raccontata da Pino Cacucci nel suo libro intitolato “San Isidro” o forse no, non ricordo bene, ma ritornando a parlare di Blauvelt, non bisognerebbe omettere di ricordare che oltre a essere stato uno degli ultimi corsari olandesi del XVII secolo, in molti testi viene ricordato, a ragione, come un insigne cartografo, dato che proprio a lui si deve la prima mappatura di una buona parte delle coste dell’America centrale. I suoi conterranei e gli occidentali in genere magari anche lo ringrazieranno per questo, meno forse i nativi di queste parti, ma tant’è, se non lo avesse fatto lui lo avrebbe fatto di certo qualcun altro, e tutti gli avvenimenti luttuosi provocati dall’incontro tra questi due mondi, sarebbero successi lo stesso, magari con qualche anno di ritardo, ma sarebbero senza dubbio successi lo stesso. Il sole è ormai definitivamente tramontato dietro la linea dell’orizzonte che ancora riesco a osservare da questa trappola dondolante che chiamano amaca, una trappola che complici senz’altro le bottiglie di birra consumate e che ancora sto consumando, non mi permette di mettere piede a terra, ma forse è solo un bene, perché probabilmente la sabbia sarà ancora arroventata dal feroce sole pomeridiano di qui, o forse è solo la voglia e la forza di farlo che mi manca. Osservo un’imbarcazione rientrare da chissà quale attività marinaresca, e questo mi fa venire in mente un’altra storia che ho sentito da queste parti legata ai traffici di “polvere bianca”. – Praticamente – dico a me stesso stappando l’ennesima Toña – succede che a volte i “narcos” che vengono inseguiti da qualche lancia di una qualche polizia, siano costretti a disfarsi della roba prima di venir raggiunti, e così i pescatori, per la maggior parte di etnia miskito, volentieri raccolgono ciò che loro chiamano “aragoste bianche” – le aragoste, nella cultura e nell’economia dei miskitos, hanno sempre rivestito un ruolo di primissimo piano, almeno fino a che questo popolo non ha scoperto la cocaina – dato che per loro, tutto ciò che viene dall’acqua è una benedizione di Dio. Ho sentito di intere comunità che traggono giovamento da quest’attività, i cui proventi servono anche per costruire scuole, ospedali e chiese in una zona dove il governo nicaraguense appare come un’entità lontana, addirittura di un altro paese, ma tutto ciò genera naturalmente, oltre a improvvise quanto effimere ricchezze, anche un rapido disfacimento del tessuto sociale di queste comunità, come dicono i più affermati sociologi centroamericani. E così, dai tempi di Blauvelt fino a oggi e chissà per ancora quanto tempo, la pace da queste parti rimane una parola vuota, dal significato sconosciuto. “Chissà la faccia che farebbe Blauvelt nel vedere come sono ridotte queste zone al giorno d’oggi” penso, mentre il libeccio che mi ha accompagnato fino ad adesso, mi culla in uno strano sonno che lentamente si sfilaccia sotto le mie palpebre. Poco prima di crollare in un torpore ovattato che rallenta tutti i sensi, faccio in tempo a raccontarmi, nel mio delirio alcoolico di quello che è stato questo strano pomeriggio a Corn Island, la fine di questa storia, la storia del corsaro Blauvelt. – Nel 1663, anno in cui i pochi storici che hanno provato a ricostruire la sua storia, indicano come anno della sua morte, Blauvelt, assieme ai più famigerati corsari dell’epoca, tra cui Henry Morgan, sotto il comando di sir Christopher Myngs, attaccano uno dei più importanti insediamenti spagnoli in terra messicana, Campeche. I legni usati per questa spedizione sono ben quattordici, e i corsari e le loro ciurme ammontano a oltre millequattrocento. La città cerca di resistere eroicamente, ma alla fine di un lungo assedio viene conquistata e saccheggiata. Vengono commesse le più immani atrocità e la popolazione viene oltraggiata a tal modo che persino Carlo II d’Inghilterra interviene vietando momentaneamente altri attacchi alle colonie spagnole. Da allora di Blauvelt se ne perdono tracce e in parte memoria, anche se, come già detto precedentemente, due dei luoghi che più furono importanti a livello “professionale” nella sua vita, ossia la baia di Bluefields in Giamaica, e il tratto interno di una laguna posto all’estremo sud dell’attuale Nicaragua sulla quale sarebbe sorta Bluefields, ancora continuano ad alimentarne memoria e leggenda. Tra queste ultime, c’è quella che ho sentito proprio stamattina, sul molo del porto da cui ho rimediato un passaggio per questo paradiso che si chiama Corn Island o forse chissà, l’ho sentita da qualche altra parte o l’ho letta in qualche libro o giornale, o magari se l’è solo inventato il mio cervello. Dunque, secondo quanto ho sentito, sembrerebbe che la tomba di Blauvelt, sepolta da quasi quattrocento anni di vegetazione, terriccio e immondizia varia, si trovi ancora nel cimitero di Bluefields città, abbandonata e dimenticata da tutti, mentre in Giamaica, ho sentito esattamente il contrario, ossia che Blauvelt sarebbe sepolto nella riva sabbiosa della baia cui avrebbe dato il nome, e ho persino sentito che qualcuno, sempre in Giamaica, dice che il suo corpo, sarebbe giaciuto, presumibilmente per pochissimo tempo, sul fondo di quella baia, prima di essere divorato dagli squali. In questa storia – mi dico con gli ultimi barlumi di ragione che si vanno spegnendo uno a uno nel mio cervello assonnato e con un veloce stomp che a ondate il vento di libeccio porta da uno dei piccoli bar che costeggiano questa spiaggia – sembrano alla fine prevalere le incertezze, i dubbi e le leggende, mentre l’unica certezza che ora ho, escludendo il convincimento che fra un istante prenderò sonno completamente ubriaco, è che non ricordo assolutamente nulla, non solo del perché sono arrivato fino a qui, ma soprattutto di cosa speravo mai di incontrare tra queste spiagge desolate e bianchissime, e questo lo sto pensando proprio ora, mentre il libeccio sembra ingrossarsi leggermente, rendendo questo dondolare dell’amaca ancora più ammaliante e piacevole, alla salute di Blauvelt e di tutti i pirati…

Questo, che mi auguro abbiate avuto la pazienza di leggere, è uno dei capitoli – leggermente rivisitato – che sono presenti nel mio terzo libro “Venti pirati. Storie di venti pirati e di venti di libertà “, pubblicato un paio d’anni fa dalla fantomatica Pirati Edizioni. Invito, come sempre, tutte/i quelle/i che visiteranno le pagine di questo blog a cliccare sui banner pubblicitari presenti su questo e sugli altri articoli passati e futuri. E’ un piccolo fastidio (io stesso non lo farei mai, se non fosse per finanziare in qualche modo un’attività che è principalmente una passione) ma può essere utile per chi, come me, scrive. Ricordo agli attenti lettori inoltre che i libri precedenti pubblicati in cartaceo sono richiedibili  – “México Sur Real” al costo di 14 euro + 1.28 euro (spedizione ordinaria) o 3.63 euro (spedizione raccomandata), “Venti pirati. Storie di venti pirati e di venti di libertà” (15 euro + 1.28 euro in spedizione ordinaria o 3.63 euro spedizione raccomandata) – all’indirizzo: [email protected]. Allo stesso indirizzo vi potete rivolgere per ogni altra eventuale informazione. Grazie

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