Deserto del Rock – Prefazione

Uno smisurato deserto, quattro amici a bordo di una vecchia auto probabilmente rubata in viaggio senza una mèta precisa, qualche pietra miliare del rock nello stereo, qualche citazione tratta da un paio di buoni libri, e poi qualche sorsata di tequila e anche un po’ d’hashish. E tra questo, tra tutto questo, gli accadimenti secondari delle aride esistenze dei quattro paisanos protagonisti, aride proprio come quel deserto che stanno attraversando: il Deserto del Rock.

Tutto è iniziato da una canzone, almeno il tutto che riguarda questo libro, e da dei viaggi, anche se non ricordo esattamente qual è stato il viaggio da cui tutto è iniziato. Fatto sta che “Scar tissue“, la ballata da desperados che i Red Hot Chili Peppers hanno pubblicato quasi diciotto anni fa nel loro settimo album “Californication“, oltre a essere diventato un personale compagno irrinunciabile per una precisa categoria di viaggi – che come caratteristica principale hanno il fatto di essere piuttosto lunghi, di attraversare affascinanti spazi sconfinati e di venir compiuti prevalentemente in macchina – è divenuto, grazie anche al relativo video, protagonista del primo racconto di questo libro – che è stato pubblicato per la prima volta neanche un anno fa nel mio blog –, dando successivamente poi il la al resto. Poi sono venute altre suggestioni, ispirate da altre canzoni e altri video, e poi ancora libri, viaggi, situazioni personali e una minima dose di immaginazione. Tutto questo ha dato vita al libro che state leggendo, una raccolta di racconti collegati tra loro, alieni a qualsiasi pretesa di raccontare chissà quale storia, ma che si propongono di risvegliare passioni e suggestioni, anche attraverso semplici immagini che appartengono a un’epoca che ho solo sfiorato, in fondo mai sopite. Un libro che ho voluto intitolare appunto “Deserto del Rock”. E se le trame di ogni singolo racconto possono sembrare poco originali e forse scontate, forse un po’ meno scontato era riuscire a incatenare tra loro questi brani – sempre che ciò sia effettivamente avvenuto, ma di ciò giudicherà l’attento lettore. Originalità o meno comunque, anche questi racconti, come un po’ tutta la mia modesta produzione, sono ispirati a quei princìpi “pirateschi” che se da una parte non badano poi molto a diritti d’autore e scelleratezze simili quando si tratta di prendere in prestito qualche frase o qualche citazione, dall’altra concedono – anche attraverso queste “appropriazioni indebite” appunto –, a chiunque voglia esprimere qualcosa e quindi anche a me, tutto lo spazio necessario – a patto di cercarselo – affinché una libera espressione del proprio pensiero e della propria creatività possa trovare compimento. Ed è questa dunque la base su cui si fonda questa piccola “epopea” rock che è questo libro, una base che poggia su stabili fondamenta che sono state piantate, nel corso di svariati decenni, da artisti del calibro dei Red Hot Chili Peppers, dei Pink Floyd, dei Doors di Jim Morrison (o forse dovrei dire di James Douglas Morrison) e dei Gorillaz. Il cinema ha invece contribuito con pellicole tipo “Puerto Escondido” di Gabriele Salvatores (tratto naturalmente dall’omonimo romanzo di Pino Cacucci), “The Doors” di Oliver Stone e, in fondo, anche con “Telma e Louise” di Ridley Scott. Questo per quanto riguarda la parte musicale, cinematografica e poetica, mentre per quanto riguarda le lettere, le fondamenta risultano stabili grazie al già citato Pino Cacucci con il suo “Puerto Escondido“, a John Steinbeck con “Pian della tortilla” e, per certi versi, anche grazie a Enrico Brizzi con il suo “Jack Frusciante è uscito dal gruppo“, ma in generale, grazie a tutto quel movimento, anche letterario, che ha preso il nome di Beat Generation e che, nonostante l’età, continua a influenzare ancora generazioni e generazioni di scrittori e aspiranti tali… Infine, voglio ricordare, soprattutto a me stesso, che uno dei quattro paisanos protagonisti dei racconti assomiglia da vicino a una persona buona che non c’è più, una persona che ho avuto la fortuna di conoscere e di salutare spesso nei pochi anni in cui le nostre strade si sono incrociate. Ciao Stefano…

  

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