A Tijuana – Più a sud della vendetta (Anteprima)

E’ sul far dell’alba che si sgretolano i sogni in questa città corrotta, anestetizzata e indifferente a tal punto da lasciar pendere il cadavere decapitato di un uomo, appeso a un semaforo di un incrocio appena in periferia, per più di tre ore, senza che nessuno si preoccupi di fare qualcosa o di chiamare qualcuno. E’ il sesto di questo genere questa settimana e considerando che siamo a venerdì e che nel fine settimana questi episodi sembrano intensificarsi, non sarà difficile raggiungere quota undici, la media settimanale di quest’ultimo periodo: quasi due omicidi al giorno. Senza contare poi quelli, come gli immigrati irregolari, cui nessuno sembra importare l’esistenza, che non rientrano in nessun conteggio o statistica. Sembra quasi di essere in un altro Paese a paragonare questa città a quella che era appena qualche decennio fa, che pur essendo stata anche a quei tempi relativamente pericolosa, coinvolgeva negli omicidi e nei fatti violenti in generale solo gli affiliati alla criminalità di allora, mentre oggi nessuno può dirsi al sicuro. Certo gli odori, i rumori, l’aria stessa che si respira a ogni passo dicono che siamo in Messico, ma in realtà Tijuana è solo un’enclave gringa in territorio messicano, un tumore neanche poco maligno da tollerare bene o male e con cui convivere finché, come una bolla di sapone divenuta troppo grande, il tutto non scoppierà. Quando lo tirano giù, il cadavere dell’uomo che era, rivela la sua identità attraverso una narco-manta che i suoi carnefici gli hanno appeso alla fune che lo sorreggeva, a estremo oltraggio di una dignità di cui ora comunque, non saprebbe che farsene. La narco-manta, che è poi un piccolo pezzo di cartone pressato, deturpato da una grafia che rivela un odio smodato e lancinante, annuncia così la sua identità e insieme la sua fine: Yo Lázaro Fuentes, apuyo a mí patron, el monta-perros. Atención. El Frente.

Lungo la strada che stavano percorrendo prima di arrivare alla Plaza Río Tijuana a bordo della vecchia Tsuru di un cugino di un amico di Julián, questi spiegò tutta la faccenda a Piero, che attento a ogni parola del colombiano, si limitava solo ad annuire e a guardare fuori dal finestrino. – Di don Pepe Torres, non esistono in sostanza immagini, se si esclude una gigantografia di gruppo che fino a qualche mese fa faceva bella mostra di sé nell’atrio d’entrata del centro commerciale. – Il tutto risale – aggiunse Julián dopo una breve pausa venutagli utile per ottenere la giusta concentrazione da tenere quando si affronta una curva moderatamente impegnativa come quella che stavano percorrendo in quel momento – a quando hanno inaugurato questa Plaza. In quell’occasione c’erano presenti un sacco di autorità, personaggi importanti e altri ugualmente importanti ma forse meno presentabili. Ma visto che avevano dato il loro contributo economico alla realizzazione di questa Plaza – soldi naturalmente provenienti dal narcotraffico – e considerando che disponevano della protezione dei judiciales di allora, non c’era motivo che non si facessero vedere in pubblico. Neanche tanto defilati dunque c’erano i reggenti del Cártel de las Californias, cioè Francisco Rafael Mellado Reyes. il capo supremo di allora, ucciso un paio di mesi fa durante una sparatoria con la polizia nel frattempo passata momentaneamente dalla parte cui dovrebbe dipendere, ovvero dalla parte dello stato; c’era quello che è stato l’ultimo dei Mellado Reyes, ovvero Heriberto Ibarra Mellado detto El Tigre, al cui omicidio ho dato il mio particolare contributo neanche un mese fa, e c’era quello che era il delfino di Francisco Rafael, ovvero il non ancora don, Pepe Torres, attuale vincitore della faida interna al cartello che fu dei Mellado Reyes. – Ebbene, in quella foto che ti dicevo prima, c’erano immortalati le brutte facce di tutti questi signori, compreso il nostro uomo, don Pepe Torres, il quale, un poco irritato per questa storia di una sua foto pubblica esposta a tutta la città, durante questa sorta di guerra per il controllo di Tijuana, l’ha fatta letteralmente tirare giù, cancellando per sempre l’unica foto che si aveva di lui. – Naturalmente, don Pepe Torres non è stupido – continuò a raccontare Julián, mentre guidava apparentemente rilassato, ormai in vista della Plaza – e conoscendo il fotografo che aveva scattato quella foto, lo stesso da cui siamo diretti noi naturalmente, gli comprò tutte le copie e i file che lo ritraevano in quello scatto. Fortunatamente per te questo tizio, all’insaputa di tutti, conserva ancora nel suo negozio una chiavetta usb in cui è stata salvata l’unica copia esistente di quell’immagine, e oltre a lui, il solo che è a conoscenza di ciò, indovina un po’ chi è? Piero si voltò a guardarlo, ma quell’immensa amarezza che provava per tutta quella faccenda, non si concretizzò in nessun commento, quasi le parole gli si strozzassero in gola, rischiando di soffocarlo. Julián, non accortosi dello stato d’animo dell’italiano, o facendo finta di non accorgersene, rispose allora, con fare un po’ da spaccone, alla propria stessa domanda: – Il sottoscritto amigo, el hijo de puta que está en este momento a tu lado en este pinche coche. Basterà solo prenderlo per il verso giusto, e vedrai che non farà poi tante storie per darci quella chiavetta. Piero rivolse nuovamente lo sguardo verso il colombiano, fissando il suo volto come se ciò gli fosse utile per iniziare a capire qualcosa di quanto da questi appena detto, ma non trovando anche questa volta risposte, riprese a fissare il nulla fuori dal finestrino con un atteggiamento che se non era apertamente scettico, poco ci mancava. Poi, come se si fosse risvegliato da uno stato di trance in cui non capiva quando c’era scivolato dentro, ringhiò tra i denti: – Una volta, una sola volta mi basta vedere quel figlio di buona donna…

Qualche minuto più tardi, alla Plaza Río Tijuana, uno dei centri commerciali più alla moda della città Piero, confuso e non poco frastornato dal caotico andirivieni di corpi in libero movimento che sciamavano in ogni direzione, si dirigeva, accompagnato da Julián oramai quasi irriconoscibile dopo le tre ore abbondanti che aveva dedicato a camuffarsi per evitare di finire assassinato, al negozio di questo fotografo, un tizio che gli doveva un sacco di favori, disse ridacchiando il colombiano. Al loro arrivo al parcheggio, un paio di ragazzini si erano offerti di dare un’occhiata alla loro macchina in cambio di pochi pesos; Julián neanche li aveva visti, mentre Piero, fulminando il colombiano con uno sguardo d’odio misto a sconcerto per l’evidente disprezzo che questi aveva dimostrato non accorgendosi di loro, aveva semplicemente risposto – está bien mis hijos. Ciò scatenò l’entusiasmo tra i due ragazzini che probabilmente speravano, resisi conto di trovarsi di fronte a uno straniero, in qualcosa di più dei soliti spicci che invece normalmente ricevevano per quel lavoro. Non avrebbero invece mai più rivisto né lo straniero con quel tipo strano che neanche si era accorto di loro, né i loro meritati pesos, e nemmeno un nuovo giorno.

Questa è, come si può capire da titolo e foto di quella che sarà la copertina del libro, un’anteprima, del mio primo romanzo (che uscirà, se tutto va bene, non prima del prossimo anno), la cui trama ha la principale caratteristica (almeno nella prima metà dello stesso) di essere, per così dire, un romanzo multilineare, cioè con storie diverse (quattro per la precisione) che si intrecciano a vari livelli e con un’importante distorsione del tempo cronologico, alla Alejandro González Iñárritu tanto per capirci, ma in versione letteraria. Don Pepe Torres, boss di una fazione dissidente del fantomatico Cártel de las Californias, Julián, sicario colombiano deciso a cambiare vita, Deylin, clandestina nicaraguense che non si rassegna alla povertà in cui è nata, e Piero, disincantato ribelle a cui il destino porta via la giovane famiglia che stava faticosamente costruendosi, daranno vita a queste storie che finiranno per incrociarsi, nel bene e nel male, e a far riflettere il lettore sul senso della vendetta, da cui una parte del titolo del romanzo stesso. Ricordo agli attenti lettori che i libri che ho pubblicato precedentemente sono richiedibili – al costo di 14 euro + 1.28 euro (spedizione ordinaria) o 3.63 euro (spedizione raccomandata) per “México Sur Real – Racconti di paradossale realtà e ordinario “surrealismo” alla messicana”  e di 15 euro + 1.28 euro (spedizione ordinaria) o 3.63 euro (spedizione raccomandata) per “Venti pirati. Storie di venti pirati e di venti di libertà“, all’indirizzo: [email protected] 

P.S.: La riproduzione della copertina di quello che sarà il mio primo romanzo, pur essendo stata creata dal sottoscritto e pur contenendo una foto scattata dalle parti di Guerrero Negro, in Baja California Sur, sempre da me stesso, è stata completata con la scritta “Anteprima” da quel giovane hacker informatico che è mio figlio: Pablo Sbroggiò. Onori e merito…

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